Abbiamo conosciuto Peppe Lomonaco alla Scuola di storia orale a Milano e Sesto San Giovanni, nel 2018, e lo abbiamo ritrovato a Matera, al convegno sulle Memorie popolari, nel 2019. Ci è piaciuto come si è avvicinato alla storia orale e il modo in cui ne parla e ne scrive. Così gli abbiamo chiesto di ripubblicare nel sito dell’AISO alcune pagine del suo libro Se hai bisogno, dimmelo. Storie registrate di spiazzante umanità (Edizioni Motola, 2016). Ne riportiamo qui sotto la Premessa insieme a due storie di vita, precedute da un’autopresentazione dell’autore, scritta apposta per noi.
Sono nato a Montescaglioso (Matera) nel 1951 in una famiglia di braccianti. Da giovane volevo fare l’operaio industriale. Non mi piacevano i lavori dei campi. Andai via da casa a diciassette anni. Era il 1968. Approdai a Milano dov’erano le industrie. Divenni operaio qualificato: macchine utensili. Avevo la passione per la lettura. Mi sentivo di appartenere al PCI, come la mia famiglia. Nella mia attività lavorativa mi sono sempre impegnato nel sindacato. Con la passione della lettura mi nacque quella per la scrittura alla quale non davo molta importanza. È stato attraverso la lettura che mi sono imbattuto nel libro di Nuto Revelli Il mondo dei vinti, poi nelle storie raccolte da Franco Alasia in Milano, Corea insieme al saggio di Danilo Montaldi. Questi i libri importanti per quanto riguarda la storia orale. Poi sono venuti molti altri titoli: Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, le Autobiografie delle leggera e Militanti politici di base di Montaldi, Le vita di prima di Franco Alasia. Poi Danilo Dolci: Banditi a Partinico e Racconti siciliani. E, tantissimo tempo fa, Compagne dei Bianca Guidetti Serra. In ordine di tempo l’ultimo libro interessante di testimonianze sul tema lavoro è stato Viaggio tra gli italiani all’estero. Racconto di un Paese altrove (Il Mulino). Da anni sono convinto di poter scrivere di gente semplice che vive del proprio lavoro. Le mie storie di narrativa riguardano il mondo del ceto popolare. D’altronde gli uomini illustri hanno sempre avuto illustri biografi. Nel 2015, per un intero anno, attaccai con le interviste. Venne fuori un bel libro Se hai bisogno, dimmelo. Storie registrate di spiazzante umanità. E una bella esperienza per me che mi sto accingendo a ripetere con nuove interviste sempre sul tema del lavoro.
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Premessa al libro “Se hai bisogno, dimmelo. Storie registrate di spiazzante umanità”
Ci sono storie che ci colpiscono e ci commuovono tanto da accompagnarci nel tempo per degli anni o per tutta la vita. Verso la fine degli anni Settanta ho conosciuto Nuto Revelli leggendo un suo libro, Il mondo dei vinti. Testimonianze di storie di guerre, di lavoro, di fatica, di solitudine, di emigrazione di persone appartenenti a comunità sparse in un’area depressa della provincia di Cuneo.
Fui colpito dalle voci che leggevo pagina dopo pagina. Dall’incontro con quelle storie mi accorsi dell’estrema vicinanza di quel mondo al mondo che mi stava intorno.
Nel tempo ho maturato l’idea di realizzare una raccolta di storie dalle “voci” autentiche di una comunità; non solo per salvare dall’oblio un patrimonio di esperienze vissute dalle generazioni precedenti da cui le nuove potranno attingere conoscenze storiche e motivi di ispirazione ideale, ma anche perché viene affidata direttamente ai diversi soggetti della comunità la ricostruzione di una narrazione. Si tratta di una storia raccontata “dal basso”, dalle persone “comuni” alle prese con le difficoltà e le sfide grandi e piccole del loro passato.
Penso che l’insieme delle storie, delle “voci” qui raccolte rappresenti una panoramica sul vissuto di una comunità, quella a cui appartengo, attraverso le vicende personali e collettive tenendo sempre nella centralità il lavoro, che costituisce gran parte dell’identità di ognuno, oltre a essere il valore su cui è fondata la Repubblica Italiana (Art. 1 della Costituzione), e tutto ciò che può girare intorno che poi è la vita o buona parte di essa.
Pur consapevole di non avere gli strumenti dello storico o del sociologo, ma avvalendomi di confronti con persone qualificate nel campo dell’indagine e della ricerca, ho deciso di avventurarmi in questa esperienza che, conclusasi, giudico veramente interessante e, per certi versi, esaltante.
Non volevo testimonianze selezionate né mi interessava stilare statistiche di alcun genere. Mi affascinava conoscere la vita, quella della gente che lavora, che ha sempre lavorato, delle persone operose. M’interessava ascoltare, sentire i fatti. I fatti della memoria dei singoli che formano una comunità. Perché come ha detto Mario Luzi:
Un paese senza memoria / è un paese senza futuro.
Lo smarrimento della memoria / conduce al disastro.
Senza memoria / non c’è prospettiva di futuro.
Quindi è giusto ricordare il passato, le storie delle persone: le partenze, il viaggio, la speranza, le ansie, la fatica, il lavoro, il vissuto quotidiano, i tempi.
Ho realizzato la prima intervista, volutamente non strutturata ma libera come tutte le successive, nell’estate del 2015. Dopo averla trascritta mi sono sorpreso a leggere la vicenda umana e meravigliato della scorrevolezza che la narrazione continuava ad avere anche sulla pagina. Mi entusiasmai abbastanza da caricarmi di volontà per andare avanti e collezionare oltre 65 ore di registrazioni.
Le persone intervistate sono state da me scelte con un approccio preliminare. Tutte le persone contattate, tranne poche eccezioni, hanno accolto il mio invito, in alcuni casi con un certo entusiasmo. Le interviste sono avvenute in circostanze e in luoghi più disparati: a casa mia, nell’officina dell’intervistato, nel deposito, nel garage, a casa sua o in auto. Mi sono allontanato da Monte per intervistare persone che vivono a Torino, a Fano, a Bari, a Matera.
Una delle sorprese è stata constatare che gran parte di loro hanno avuto un vissuto di emigrazione interna o esterna anche di lunga durata, alcuni si sono stabilizzati nel luogo di immigrazione. D’altronde che scelta poteva avere un padre di famiglia o un giovane senza lavoro negli anni Cinquanta, negli anni Sessanta e Settanta se non quella dell’emigrazione verso il Nord dell’Italia o verso i Paesi del Nord Europa o verso l’America. Allora come ora è valido quanto ha scritto Nuto Revelli: “L’emigrazione era l’unica via di scampo, l’unica strada della speranza, l’unica scelta di civiltà di cui il contadino povero disponeva.” Infatti l’emigrazione per molti è stato il tentativo, molte volte riuscito, di migliorare la propria situazione, di cercar fortuna, di realizzare i sogni. Per altri è stata semplicemente la salvezza, la liberazione, l’uscita da un recinto o da una gabbia.
E poi a colpirmi è stata una bella storia di solidarietà vissuta nelle Marche da un gruppo di bambini di Monte negli anni Cinquanta. Ma non vado oltre per non togliere il piacere della sorpresa al lettore di queste pagine.
Le narrazioni del tempo vissuto raccolte in questo libro sono un viaggio dagli anni Quaranta del secolo scorso ai giorni nostri.
Ascoltando la viva voce degli intervistati, certe volte mi è capitato di commuovermi segretamente cercando di non dare nell’occhio. Altre volte mi è sembrato di vedere l’umanità descritta in Furore da John Steinbeck.
Due testimonianze di vita sono state scritte direttamente dagli interessati.
Da qualche parte Anton Cechov ha detto: “La prima e principale attrattiva di un racconto è la semplicità e la sincerità”. Tutte le narrazioni di questo libro, a parer mio, sono semplici, sincere, genuine.
Sono grato a tutti gli intervistati per la fiducia che mi hanno accordata raccontandomi le loro storie, compresi spezzoni della loro vita che mi è sembrato giusto non riportare in questo libro.
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Volevo smettere con i lavori dei campi.
Intervista ad Anna Giancola
Sono nata nel mese di maggio del 1943 a Montescaglioso e precisamente in via Eraclea. Mio padre e mia madre erano contadini, coltivavano i terreni dei nonni. Sono andata a scuola fino alla 5a elementare come le altre mie tre sorelle. Ho iniziato a lavorare con i miei genitori e con le mie sorelle alla raccolta delle olive, dei ceci e delle fave. A tredici anni sono andata sotto padrone a raccogliere il tabacco per cinquecento lire al giorno. A un certo punto papà s’è trovato a condurre un podere a mezzadria. Dopo qualche anno ha deciso di comprarselo indebitandosi oltremisura. A diciassette anni sono partita in Svizzera. Volevo smettere con i lavori dei campi, con gli stenti di casa e di reclamare a mamma un vestito nuovo. Dalla Svizzera è arrivato uno di Monte incaricato da una fabbrica a reclutare manodopera. Era Rocco Ditaranto, operaio di questa fabbrica. Quella volta in Svizzera ne ha portato cinquantaquattro tra donne e ragazze, io ero la più giovane. Di me dal punto di vista legale s’è fatto carico una mia parente. A Bari ho preso il treno per la prima volta. A Chiasso ci hanno tenute per un giorno intero per la visita sanitaria. Volevano vedere se eravamo sane. A Ermatingen ci hanno sistemate in uno stabile, come un albergo, di proprietà del padrone della fabbrica. Due per ogni camera. Eravamo tutte donne e ragazze. Di quelle sposate la gran parte è rientrata a Monte dopo alcuni anni. Pensavano che la lontananza dai figli e dai mariti fosse facile. Per loro era dura, di sera piangevano sconsolate in solitudine. Poverette… Noi ragazze stavamo bene. Si finiva di lavorare e si tornava a casa a chiacchierare o a fare dei piccoli lavori domestici. Allora non c’era la televisione. Alle nove si andava a dormire. La sveglia era per le cinque.
Quando sono arrivata in Svizzera mi sono resa conto che era tutta un’altra vita, c’era l’acqua corrente in casa, il riscaldamento, il mangiare era tutt’altra cosa che da noi, in casa non c’era il mulo. Insomma una vita diversa da quella che avevo lasciato alle mie spalle. La difficoltà maggiore era di non conoscere la lingua tedesca. È stata una fortuna avere in fabbrica il caporeparto che parlava italiano. Nello stabile dove si dormiva c’era una direttrice che controllava quando si usciva la mattina per il lavoro. Il rientro la sera era fino alle ore 22, per il sabato entro la mezzanotte. La fabbrica. Era una fabbrica di barattoli di metallo destinati alle industrie alimentari, della cosmetica e dei medicinali. Si lavorava sul turno diurno. Alle sei si entrava in mensa per la colazione, alle sei e mezza si iniziava a lavorare. Alle undici e trenta c’era il pranzo e si riattaccava alle dodici e quarantacinque fino alle diciassette. Si lavorava per nove ore al giorno. In fabbrica eravamo tra trecento e quattrocento dipendenti con moltissimi italiani provenienti da tutte le regioni. Mi sono trovata bene, la difficoltà è stata la lingua. Se non si conosce la lingua te ne possono dire di tutti i colori. L’emigrazione non è una roba facile. Bisognerebbe provarla tutti. C’è una certa disciplina. Arrivati a una certa ora non si può fare rumore. Tutto è disciplina. Non è come l’Italia. Io mi sono trovata bene sin dal primo giorno. Solo la lontananza dei genitori ho patito. Per il resto mi sono trovata a mio agio. Il lavoro nella fabbrica dei barattoli lo preferivo di gran lunga a quello dei campi perché non ero sotto la pioggia, al freddo o al caldo infuocato dell’estate. Nei primi tempi riuscivo a mandare a casa metà dello stipendio. Se facevo spesa di vestiti e scarpe di soldi a casa ne mandavo di meno. Quando siamo arrivati in Svizzera era inverno e abbiamo comprato le scarpe per camminare sulla neve. In fabbrica stampavo con una pressa i barattolini destinati alla Nivea. Mi davano il cottimo. Da ogni foglio dovevo ricavare venti coperchi di barattoli. Alle mani avevo sempre i calli. È stato lì, durante quel lavoro, che della mano destra ho perso tre dita quasi per intere. È accaduto appena dopo che mi sono sposata. Oltre alle nove ore di lavoro, badavo alla casa, alla spesa, preparavo da mangiare. È bastata una disattenzione per trovarmi tre dita mancanti. Successivamente mi hanno cambiato mansione. Mi hanno messo al controllo della produzione delle altre persone, e all’imballaggio. Ogni reparto aveva la sua produzione. Si partiva dal coperchietto e dal barattolino per arrivare alla produzione del secchio di una certa capacità. Nella fabbrica il rumore ti spaccava le orecchie dal primo mattino. Nel 1962 ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati l’anno dopo. Lui era muratore. Lavorava a una costruzione vicina alla fabbrica. È stato lì che ci siamo conosciuti. Lui è di Montagnana, provincia di Padova. Ci siamo sposati in Svizzera. Al mio matrimonio è venuta solo mamma. Papà non è venuto perché non aveva a chi affidare il mulo. Da sposati abbiamo preso una casa in fitto per conto nostro. Nel 1964 sono diventata mamma. Ho due figlie. La prima lavora come commessa, l’altra lavora in banca. Sono sposate. Sono nonna di quattro nipoti. Una figlia vive a Ermatingen, l’altra a Kreuzlingen. La mia prima figlia, a nove mesi, l’ho portata a Monte da mia madre. La legge svizzera non mi permetteva di stare a casa. La legge mi obbligava a lavorare. Io pur di lavorare ho portata la bambina di nove mesi da mamma, a Montescaglioso. La legge svizzera di quei tempi ti permetteva di stare in Svizzera a condizione che lavoravi, diversamente ti mandava a casa. Mia figlia con mamma è stata per cinque anni. La bambina con mamma è stata bene. Chiamava mamma a mia madre. Quando venivo a trovarla d’estate e a Natale, la bambina mi guardava storto, non mi chiamava mamma. Quando è nata l’altra figlia la legge svizzera era cambiata. Sono stata a casa senza problemi. La Svizzera per noi non è stata proprio bella. Nella fabbrica dei barattoli ho lavorato per undici anni. Sono stata a casa per cinque anni. Ho ripreso a lavorare in un mulino a preparare sacchetti di farina destinati ai negozi. Lì ho lavorato per venticinque anni con un rapporto con il datore di lavoro sempre corretto e rispettoso. Pensandoci ora, stavo decisamente meglio al mulino che nella fabbrica dei barattoli. Nel mulino lavoravo per diciotto ore alla settimana. Riuscivo a conciliare l’orario di lavoro con l’impegno di accompagnare a scuola le mie figlie e andare a riprenderle. Nei primi anni abbiamo comprato casa a Monte. Pensavamo di rientrare in Italia. Ma con i figli che andavano a scuola in Svizzera non si poteva pensare di interrompere il loro percorso. Abbiamo scelto di rimanere in Svizzera anche per le notizie non buone sulla situazione dell’Italia. La Svizzera è tutt’altra cosa. Le mie due figlie hanno trovato subito da lavorare. Che cosa venivamo a fare in Italia? Io ho sofferto tanto la mancanza dei genitori, non voglio che le mie figlie devono soffrire quello che ho sofferto io. Dove abitavo c’erano tanti italiani, ma avevo pochi contatti, tranne le amicizie nella fabbrica. Mia sorella è venuta in Svizzera un anno dopo di me. Non ha lavorato nella fabbrica con me. È andata a lavorare in un ristorante. Ci vedevamo qualche sera e non di domenica perché lei lavorava. Tra i ricordi che ho degli anni vissuti a Monte c’è quello relativo a una coppia che abitava di fronte a casa. Compravano mezzo chilo di carne. La cuocevano per il brodo, la stessa carne la cuocevano per fare il ragù per la domenica e poi, sempre con la stessa carne preparavano la teglia al forno con le patate e i lampascioni. Poi c’era un’altra coppia. Avevano sei figli. Lui per raggranellare qualche soldo nelle ore serali era addetto a girare le pellicole al cinema. Certe volte ci raccontava le storie dei film, noi ragazzette stavamo ad ascoltarlo con la bocca aperta per ore intere. Papà non ci lasciava andare a cinema, ci accontentavamo dei racconti del vicino di casa. Poi c’era la famiglia di Felicetta con il marito Vito e le due figlie Caterina e Maria. Se ne andarono a Torino e non si sono più visti. In quella casa poi ci andò ad abitare mia sorella Addolorata dopo che si sposò nel 1960. In quella casa mia sorella morì di parto l’anno dopo. Io lavoravo nella fabbrica dei barattoli. Quel giorno, per l’intera mattinata, le mie colleghe parlottavano tra loro e smettevano non appena mi vedevano. A mezzogiorno mi ha chiamata la direttrice e mi ha detto senza giri di parole: “È morta tua sorella”. Lo stesso giorno è partito dalla Svizzera il marito di mia sorella Addolorata, e Rosaria l’altra mia sorella. In Svizzera io e mio marito siamo stati bene. Non ci sono mancati i soldi, abbiamo lavorato, abbiamo risparmiato, non abbiamo fatto la vita da pascià. Sono contenta del marito che ho, mi sono trovata bene. Lui ha due anni più di me. Per i miei settant’anni le figlie ci hanno portato in gita a Napoli per cinque giorni. Quando abbiamo festeggiato i settant’anni di mio marito siamo stati in gita a Vienna. Per il resto, in ferie siamo venuti tutti gli anni a Monte. Mentre nei giorni di Natale e di Pasqua andavamo a Montagnana, il paese di mio marito. Nelle ferie estive a Monte si dava una mano a papà nei lavori dei campi. In Svizzera ho preso la patente di guida, ma ho guidato pochissimo dal momento che il posto di lavoro era vicino a casa. In pensione ci sono andata nel 2007, a sessantaquattro anni. Ho versato quarantaquattro anni di contributi, ma la pensione non è granché. Per mettersi al sicuro c’è bisogno di una pensione integrativa con l’assicurazione. Con le figlie ho un ottimo rapporto. Una abita vicinissima a casa, l’altra è a otto chilometri. Ancora oggigiorno sto meglio in Svizzera che qua in Italia. Non sopporto le file, le lunghe attese in banca, in municipio, alle poste. Molte volte al di là dello sportello o della scrivania c’è gente incompetente impegnata a grattarsi la testa, a pulirsi il naso. E se gli chiedi qualcosa sanno essere sgarbati, supponenti.
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Di mia madre conservo dei ricordi bellissimi: quando parlava nei comizi era uno spettacolo.
Intervista a Cristoforo Dichio
Sono nato l’8 giugno del 1938. Mio padre era Dichio Rocco Luigi, bracciante salariato fisso presso l’azienda Venezia. Mamma era Menzano Marianna, casalinga. Sono andato a scuola fino alla 5a elementare. Mamma era impegnata politicamente nel Partito comunista. È stata vicesindaco e assessore alla pubblica istruzione. Da piccolo andai a Mantova nell’ambito di un aiuto alle famiglie del Mezzogiorno dell’Italia, organizzato dal Pci. Da Monte ci andammo in due io e Vito Balsamo. Fummo affidati a delle famiglie. Completai la scuola elementare. A Mantova ci sono stato per un anno. Poi tornai a Monte. Mentre Vito Balsamo vi rimase. Vito stava bene nella famiglia di un ferroviere. Studiò e si diplomò geometra. Gli comprarono una Vespa. Correva e andò a finire contro un albero. Nel dicembre del 1949 mia madre fu arrestata in seguito alle occupazioni delle terre. I poliziotti in piena notte sono venuti a casa di nonna. Mi hanno messo il mitra in faccia. Avevo undici anni. Hanno sbagliato casa. Cercavano mia madre, invece sono venuti a casa di nonna dove stavo io a farle compagnia. Mi hanno puntato il mitra e la lampadina tascabile in faccia, la corrente elettrica quella notte non c’era. Mi hanno fatto alzare e mi hanno obbligato ad accompagnarli a casa di mia madre. Non mi hanno permesso neanche di vestirmi. Ero in mutande e canottiera. A mamma le hanno puntato il mitra e non le hanno dato tempo neanche di vestirsi, se la sono portata in sottana. Quella notte hanno arrestato Anna Avena, Serafino Garbellano, Pietro Rossetti, Cicorella, Castellaneta. In piazza s’era radunata tanta gente per far rilasciare gli arrestati. È stato quella notte che hanno sparato uccidendo Novello e ferendo gravemente Michele Oliva. In quella fase ci sono stati vicini i familiari. Ma dopo, il Partito mi ha mandato a Pesaro insieme alle mie sorelle Ida e Maria. Siamo stati ospiti della famiglia Bardeggia Giuseppe, Luisa e Paolina. Bravissime persone. Famiglia di agricoltori. Ci siamo stati per un anno. Andavamo a scuola. Stavamo bene. Ancora oggi abbiamo dei rapporti, ci telefoniamo. Siamo tornati a casa quando mamma è uscita dal carcere. Nelle Marche, a Fano, venne pure Nunzio Garbellano il figlio di Serafino. Successivamente le mie due sorelle andarono a Firenze a scuola per un paio di anni. Mamma lottava per la giustizia. Si dava da fare a organizzare corsi di taglio e cucito per le ragazze e corsi di potatura per i ragazzi. A mamma si rivolgevano in tanti. Io le stavo vicino nei giorni delle occupazioni delle terre. Andavamo ai “Tre confini” tutti quanti. Quelli con i muli e l’aratro aravano i terreni. Quando sono arrivati i reparti della Polizia, mamma ha invitato tutti alla calma. Alla Polizia mamma disse che il popolo aveva il diritto di vivere, di lavorare. Disse pure che nessuno di loro stava rubando. La Polizia se ne andò. Di mia madre conservo dei ricordi bellissimi. Quando parlava nei comizi parlava senza fogli di carta. Era uno spettacolo. La piazza era piena zeppa di persone. Oggi certi democristiani mi vengono a dire che l’unica da salvare era mia madre. Lo dicono ora che mamma non c’è più. Mamma li metteva tutti nel sacco, come cultura. Dopo che sono tornato da Pesaro sono andato a bottega dal falegname e anche dal barbiere. Nel 1957 con un mio amico siamo andati a Milano. Lavorai per un anno all’Innocenti come barista. Nello stabilimento di Lambrate vi lavoravano seimila operai. Si producevano le moto scooter Lambretta e i motocarri. Dopo un anno passai a lavorare nella Polizia, la Celere, come barbiere. Facevo barba e capelli ai poliziotti. Mi davano l’accesso gratuito allo stadio San Siro. Abitavo con altri di Monte in via delle Forze Armate. L’appartamento era del fratello del mio amico. Non voleva che gli pagassi il fitto per la casa.
Dopo da Milano me ne andai in Svizzera, a Winterthur. Era il 1960. Lavorai da subito in un ristorante. Le mie sorelle già stavano in Svizzera, a Turbenthal. Nel ristorante lavavo i piatti, pelavo le patate, tagliavo la carne. Era un grande ristorante proprio vicino alla stazione ferroviaria di Winterthur. In quel ristorante ci sono stato un anno, mi davano da mangiare e da dormire. Lo stipendio era modesto, prendevo intorno ai quattrocento franchi al mese e neanche mi tenevano ingaggiato. Sono passato a lavorare nei locali notturni come aiutante cuoco. Erano locali con le luci colorate dove si esibivano donne nude per lo spogliarello. Mi pagavano bene perché si lavorava di notte, dalle sette di sera alle quattro del mattino. Dopo questa esperienza sono andato a lavorare in una fabbrica di tessitura, a Turbenthal. Avevo il compito della manutenzione ai telai. In questa fabbrica lavoravano quattrocento persone, molte di loro erano di Monte. Io e mia sorella Ida lavoravamo nel settore della produzione degli asciugamani. Maria era in un altro stabilimento a produrre coperte. In quegli anni mamma stava sola a Monte. A Turbenthal ci sono stato per quattro anni. La ditta versava i contributi e dava l’alloggio prima nelle baracche e poi in vere e proprie abitazioni. Io avevo una camera tutta per me, preparavo da mangiare da solo. Prendevo settecento franchi al mese. Nel tempo libero mi vedevo con altre persone di Monte. Andavo a ballare. Poi in certi periodi davo una mano nel negozio di un barbiere svizzero quando lui era via per gli obblighi militari. Nel negozio lavoravo con la moglie. Nel 1965 sono rientrato a Monte. Mi sono sposato. Sono tornato in Svizzera con mia moglie, Susca Maria Stella. Lavoravamo in una piccola fabbrica di corsetteria. Ero addetto alle spedizioni. Siamo rientrati a Monte perché mia moglie non si trovava bene per il clima. A Monte ho aperto una bottega da barbiere. L’attività non andava proprio bene, andava benino. Riuscivo a scampugliare con altre attività: lavoro dei campi, lavori di pulizia in qualche negozio. Mi arrangiavo. Sono andato avanti per sette anni. Poi fui assunto come bidello di scuola nel 1975. Ho lavorato come bidello per ventiquattro anni. Per il ricongiungimento dei contributi ho speso una ventina di milioni di lire. Ora di pensione prendo mille euro al mese. Nel 1978 mi son fatto la casa su di un terreno di mia madre. Durante il mio lavoro nella scuola sono stato bene. Alcune maestre democristiane mi guardavano con l’occhio storto per via della mia famiglia comunista. Una volta mi è capitato di portare per le classi una circolare da far firmare alle maestre. In segreteria con la circolare mi hanno dato una biro a inchiostro rosso. Alcune delle democristiane hanno detto: “Rossi i bidelli e rosso pure la penna!” Non perdevano occasione per bersagliare chi non la pensava come loro. Meno male che è finita questa cosa di perseguitare chi non la pensa come loro. Oggi non mi perseguita nessuno. I tempi sono migliorati. Eravamo perseguitati sia per essere comunisti che per essere evangelici pentecostali. Forse oggi per il lavoro è più difficile. Ho settantasette anni e mi dispiace dei giovani per la scarsità del lavoro. Di figli ne avevo quattro. Uno è morto per infarto a trentaquattro anni. Ho due figlie femmine e un maschio. Il maschio lavora presso una cooperativa di assistenza agli anziani, è sposato e ha quattro figli. Una delle mie figlie gestisce una lavanderia. L’altra figlia attualmente lavora in Romania. Ha lavorato per ventidue anni con Nicoletti Salottificio a Matera ed è rimasta a lavorare nell’ambito del salotto in Cina, in Cambogia, in Bulgaria. Adesso lavora, come responsabile di reparto, con una ditta di Bari che opera in Romania
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Il libro può essere ordinato a: The Sassi book store, Via Lucana, 184/E, 75100 MATERA. Email: grafica@edizionigiannatelli.it. Il volume è di 350 pagine e il prezzo di € 15,00.