Report collettivo a cura della Redazione di AISO con i contributi di Antonio Canovi, Alessandro Casellato, Roberto Labanti, Eugenia Pennacchio, Rossella Roncati, Ilaria Strampelli, Giulia Zitelli Conti.
Fotografie realizzate da Giulia Zitelli Conti per l’Associazione Eutópia-Rigenerazioni Territoriali, partner della Scuola.
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Prima giornata
La Scuola ti attende nel borgo di Vitriola di Montefiorino. Ci arrivi dopo aver percorso una sessantina di km dalla via Emilia (e dai treni); per strade arzigogolate di montagna, puoi approdarvi anche dai passi tosco-emiliani del crinale appenninico. Per una via o per l’altra, quando ci arrivi serve un momento di riappaesamento: e l’Erbalonga, il movimento associativo che funge da partner in questa seconda Scuola nel paesaggio del Dragone, è lì pronta ad accoglierti, con buona acqua, una tisana alle erbette, qualche piada tirata in casa a base di farine di montagna mescolate immancabilmente – lo vedremo nei giorni seguenti – con le erbe spontanee raccolte nei dintorni.
Il Dragone è un torrente che nasce nell’alto Appennino, la valle che ha scavato è collocata al confine tra le province di Modena e Reggio Emilia, una geografia recondita che difende un profilo selvatico agli occhi di chi sale dalla città. Ci troviamo in un “paesaggio distinto”, per riprendere un concetto che verrà ribadito dagli animatori de l’Erbalonga; entrare in confidenza richiede tempo e, insieme, un paziente lavoro di apprendimento. E’ la prima cosa che ci è stata spiegata, all’accoglienza della Scuola: per entrare in sintonia – “nel paesaggio” – occorre per prima cosa adottare una postura rasoterra, secondo la lezione di Michel de Certeau. Scendere gli occhi all’altezza dei bambini. Muovere i piedi. Interagire con l’ambiente circostante. Soffermarsi e interrogare il dettaglio. Fare tutto ciò, nell’accezione che ci è stata restituita dal geostorico Antonio Canovi, significa geoesplorare: porre il soggetto nella condizione di farsi interprete, generare esperienza, dunque memoria del e “nel” paesaggio.
Il primo passo in direzione dell’appaesamento è stato quello di visitare, o per meglio dire geoesplorare, l’orto sinergico di Antonella Zecchini. Nel gruppo de l’Erbalonga, rappresenta la “nativa”. Per dire le ragioni che l’hanno portata – diversi anni fa – a creare un orto sinergico ha usato più o meno queste parole: sussiste nell’uomo il bisogno primario di crearsi un ambiente da abitare, ove potersi riconoscere e cui appartenere in forma di paesaggio, un luogo dove sia possibile coltivare la bellezza. La bellezza scaturisce, vive, depaupera e si rigenera nel metabolismo: e questa cosa ce la insegnano le piante, nel modo in cui stanno tra di loro, nella terra.
L’orto sinergico è stato dunque il primo insegnamento della Scuola. Poi sono arrivate le parole. La novità progettuale di questa edizione della Scuola consisteva nell’intreccio cognitivo e narrativo tra l’oral – la competenza specifica di AISO – e il visual. La Scuola – ci ha riassunto Antonio Canovi – avrebbe tentato di esperire tre diversi piani documentali: la registrazione audio delle storie orali “provocate” nel vivo dell’intervista con i testimoni incontrati; i rullini contenenti gli scatti fissati attraverso l’occhio analogico della macchina fotografica; i paesaggi “riconosciuti” nel corso delle geoesplorazioni tramite la raccolta e il “trattamento” culinario delle erbe spontanee. Ai tre diversi piani documentali avrebbero corrisposto – questa la suggestione specifica della Scuola – altrettanti modi di fare esperienza e memoria “nel” paesaggio. In modo più immediato, con l’orecchio, il gusto e il cammino; sperimentando una dilazione inusitata, nell’era digital, per l’organo della vista. Luca Monaco, fotografo e co-conduttore della Scuola, ci ha quindi illuminato e almeno in parte rassicurato sotto questo aspetto. Pochissimi, tra i presenti, avevano infatti esperienza diretta dell’analogico.
Caduta la sera è venuto il momento della “cena dialogata”: Le erbe spontanee come segnavia di un paesaggio. A futura memoria, il menu: zuppa di ortiche e patate/crescentine di castagne/crescentine di grano/erbe spontanee saltate/salsiccia del Dragone/ricotta con composta di amarene e albicocche/castagnaccio.
Seconda giornata
La seconda giornata della Scuola è stata quasi interamente dedicata all’incontro con diversi interlocutori, le voci del paesaggio del Dragone.
La mattinata è iniziata mettendoci in marcia da Vitriola alla volta del borgo di Montefiorino. Ci siamo immersi così nel paesaggio, con un’esperienza del luogo che è stata primariamente sensoriale. I colli che abbiamo attraversato e che sono tornati oggi dominio del bosco e della vegetazione, sono stati teatro di un’antropizzazione antica e di importanti avvenimenti, come la prima zona libera partigiana e il terribile eccidio di Monchio, Susano e Costrignano del marzo ’44. Eventi fondamentali nel determinare, in questo territorio, la presenza di una memoria divisa e complessa; come convivono, oggi, queste memorie a volte conflittuali? Che tipo di identità contribuiscono a plasmare? Il tema della trasmissione della memoria è stato il filo conduttore delle interviste con Giulia Bondi e Muriel Guglielmini e si salda fortemente al tema dell’identità e delle modalità di approcciarsi ai luoghi e alla loro storia.
L’intervista con Giulia, la nostra prima interlocutrice – che abbiamo conosciuto già nel corso della prima serata all’Erbalonga – si è svolta all’interno di una delle sale della Rocca di Montefiorino, con una modalità spuria, insolita: ovvero, date le finalità didattiche, l’intervista è stata condotta dal presidente di AISO, Alessandro Casellato, di fronte ad un pubblico, noi partecipanti alla Scuola. Giulia, inoltre, si è rivelata una testimone particolare; lei stessa, infatti, da giornalista e documentarista, ha una certa confidenza con le fonti orali e si trova, di solito, dall’altra parte del registratore.
Dunque, uno degli aspetti più interessanti e trasversali a tutto l’incontro è stata la riflessività sulla pratica stessa dell’intervista, avendo anche come scopo quello di rispondere a un quesito: qual è il senso di un’intervista di storia orale e cosa la distingue da altre tipologie di indagine? In primo luogo, è un dialogo, che scaturisce da un incontro. In questo caso, punto di partenza è stato il libro pubblicato da Giulia insieme al comandante partigiano Ermanno Gorrieri, suo nonno. Ciò che ha riportato Giulia – che è cresciuta a Modena ed ha poi viaggiato per motivi di lavoro – in questi luoghi è stato soprattutto il legame familiare. Il lato più personale, infatti, emerge ben presto, suscitato anche dalle domande dell’intervistatore, rivelando un continuo slittamento dalla memoria pubblica a quella privata. La Resistenza, nell’esperienza di Giulia, è evento fondante dell’identità stessa della famiglia: il nonno Ermanno conobbe la nonna, staffetta partigiana, proprio nel corso di quegli eventi.
► Estratto dell’intervista di Alessandro Casellato a Giulia Bondi – Trasmissione familiare della memoria della Resistenza
I racconti, gli aneddoti, le canzoni della brigata cantate a mo’ di ninna nanna entrano in quello che Giulia definisce come il lessico familiare di casa sua, anche attraverso conoscenti e amici, vecchi compagni di brigata, che diventano una sorta di famiglia allargata. Non si tratta, quindi, solo di una trasmissione formalizzata degli eventi della Resistenza: tutta l’infanzia di Giulia ne è permeata.
Dunque, la necessità di un’ulteriore elaborazione di queste memorie l’ha spinta a tornare e iniziare un lavoro di documentazione e raccolta di altre voci. Raccontando del nonno e di questo suo lavoro, Giulia ha toccato importanti temi per la storia della Resistenza: ad esempio, le differenti modalità, da parte dei testimoni, di rapportarsi al proprio vissuto, il lato femminile della Resistenza e l’esperienza dei partigiani di area cattolica, spesso lasciati in ombra.
► Estratto dell’intervista di Alessandro Casellato a Giulia Bondi – Varie gradazioni di relazione con la memoria
Insieme a Giulia, quindi, è stato individuato uno dei più importanti spunti metodologici, di fondamentale importanza didattica. Ci sono, infatti, due livelli compresenti: uno, quello della narrazione e dell’estetica interna ad essa e il piano critico, strettamente saldato sul primo, ma che trova espressione principalmente in un secondo momento, quello della fase di restituzione. Questo secondo livello resta, di solito, a lato e non può sempre essere reso esplicito all’interlocutore, come è avvenuto, invece, nel caso di Giulia.
Lei stessa, riflettendo sul suo lavoro, ha parlato delle difficoltà intrinseche, sul piano metodologico, all’utilizzo dei vari media. L’audiovisivo, suo medium d’elezione, comporta ad esempio precise scelte e un certo grado di manipolazione. Se, come detto inizialmente, l’intervista di storia orale scaturisce da un incontro, non sempre la sua spontaneità mantiene il grado estetico e la coerenza necessari alla restituzione all’interno di una cornice divulgativa. Allo stesso tempo, tuttavia, la fonte non deve essere falsificata. Dunque, come non perdere tutte quelle conoscenze acquisite dallo storico in maniera non formalizzata? Alessandro Casellato rileva come sia utile, in questo senso, poter mettere dentro la cassetta degli attrezzi dello storico strumenti altri rispetto al registratore, come ad esempio il diario di campo.
A proposito di acquisizione formalizzata di conoscenze, noi partecipanti ne abbiamo avuto l’occasione proprio al termine dell’incontro con Giulia, con la visita al Museo della Repubblica di Montefiorino e della Resistenza italiana, ospitato nei locali della Rocca. Questa presenza è anche un forte dato identitario che ribadisce l’importanza, per un piccolo borgo come Montefiorino, di aver visto nascere la prima repubblica partigiana. L’allestimento odierno – il terzo, come ci ha spiegato il direttore Mirco Carrettieri – è frutto di una mediazione tra le diverse memorie e istanze identitarie che convivono nel territorio e si avvale soprattutto di installazioni multimediali e interattive, per rendere più accessibile la comprensione di un fenomeno complesso come la Resistenza.
Dopo la prima parte dedicata a un utile excursus sul contesto nazionale e internazionale, le stanze per noi di maggiore interesse sono state quelle dedicate alla storia locale, che rivelano uno sforzo teso a far luce, attraverso le storie del luogo, sulle zone d’ombra della narrazione dominante. Come ci ha spiegato il direttore, questa montagna era molto più popolosa e giovane di oggi, ma comunque un luogo periferico, lontano dalla politica della pianura e dove la guerra arrivò e venne percepita come un vero e proprio cataclisma. In questo senso, anche all’interno del Museo, assumono un ruolo principe le fonti orali, attraverso installazioni sonore con le voci degli abitanti di allora, con l’intento di non lasciare in disparte proprio quegli avvenimenti che hanno determinato una memoria estremamente complessa.
Sono messe in evidenza le esperienze che restano solitamente in disparte: vicende di memoria intra-partigiana sommersa, come quella del comandante Giovanni Rossi; la storia della comandante donna Norma Barbolini; o, ancora, il fenomeno della partecipazione di alcuni parroci locali alla Resistenza, peculiarità di questa parte dell’Appennino modenese.
Dopo la visita al museo, abbiamo incontrato la seconda interlocutrice, Muriel Guglielmini, sindaco di Montefiorino dal 1993 al 2001. Questa intervista, all’ombra del parco antistante la rocca, è stata sostanzialmente diversa dalla prima con Giulia, con una conduzione collettiva dell’incontro. Una seconda esperienza di ascolto, inoltre, che ha toccato altri importanti temi della storia successiva del luogo, ma strettamente legati alle modalità di rapportarsi ad essi e alla loro memoria.
Il racconto è iniziato dalla storia dell’emigrazione della sua famiglia. Proprio il suo nome, Muriel, è un retaggio del periodo trascorso in Francia. L’emigrazione, ci racconta, è esperienza comune a molte famiglie, soprattutto in queste zone di montagna, che stavano diventando i margini dell’Italia del boom. Nei paesi della valle del Dragone, nel Dopoguerra, Muriel dice: «Non era rimasto niente».
► Estratto dell’intervista collettiva a Muriel Guglielmini – Emigrazione
Dalle zone dell’Appennino modenese, le rotte migratorie principali conducevano a Genova, a Milano e in Francia. Molti vi rimasero, creando quasi un doppio dei paesi all’estero. La famiglia di Muriel, però, ha sempre vissuto con grande nostalgia questa lontananza, sentendo una forte identità con i luoghi di origine e desiderando un ritorno che si concretizzò dopo qualche anno. Come ha ribadito la stessa Muriel: «il mio paese è qua», pur essendo nata in Francia.
Questa forte identità di Muriel con i luoghi d’origine si traduce nel suo impegno in politica e nel ruolo istituzionale come sindaco. Di questa fase della sua vita, che l’ha segnata in positivo e in negativo, ha raccontato le responsabilità e le difficoltà nell’amministrare luoghi di montagna in via di spopolamento: la volontà di riportare famiglie giovani ad abitare questi territori, la necessità di facilitare l’accesso ai servizi per i cittadini. Sono le odierne carenze di queste montagne, dove mancava e manca tuttora il lavoro, indice della possibilità di abitare un luogo.
► Estratto dell’intervista collettiva a Muriel Guglielmini – Creare opportunità e servizi
Il punto di vista di Muriel ci ha offerto uno sguardo d’insieme, un legame tra passato e presente. Anche oggi, ci ha spiegato, per chi abbia una profonda conoscenza del territorio, si presentano una pluralità di memorie, di modalità di affrontare la storia partigiana di questi luoghi – comuni vicinissimi, che condividono le origini contadine e la medesima storia di emigrazione – che si traducono in identità complesse, molto diverse e, talvolta, conflittuali. Ciò apre a una riflessione: la rielaborazione messa in atto dalla memoria e i significati passati giocano sempre un ruolo nel processo presente di significazione dei luoghi e della propria identità in rapporto ad essi.
Come nell’intervista con Giulia, anche con Muriel un tema fondamentale è stato lo snodo tra memoria pubblica e privata. Rievocando il periodo come sindaco, Muriel ci ha raccontato dell’orgoglio per il passato di Montefiorino e la prima Repubblica partigiana; tuttavia, il livello personale è più doloroso. Muriel è cresciuta, infatti, con i racconti del padre e del nonno, superstite di una delle famiglie più duramente colpite nell’eccidio del ’44 e della madre, che vide suo fratello arrestato ingiustamente. L’elaborazione di questo passato, all’interno della famiglia e di una stessa persona, procede dunque in maniera complessa e dolorosa.
► Estratto dell’intervista collettiva a Muriel Guglielmini – Una memoria dolorosa
Le interviste a Muriel e Giulia, così come la visita al Museo della Resistenza, hanno evidenziato come alcune vicende siano rimaste per lunghi anni fuori dal racconto egemonico del Dopoguerra. Si pensi, ad esempio, alle famiglie contadine dei piccoli borghi della valle, che spesso subirono gli eventi o all’esperienza dei partigiani di area cattolica come il nonno di Giulia, Gorrieri. La storia orale, in questo senso, può essere in grado di gettare luce su quegli interstizi tra storia collettiva e personale, su quelle esperienze che non hanno trovato spazio tra le narrazioni dominanti.
Una storia personale, che è però al contempo storia di una tradizione di lavoro tramandata di generazione in generazione, è quella dello scultore Dario Tazzioli che abbiamo incontrato nel pomeriggio presso il suo laboratorio a Frassinoro. Nato a Sassuolo, l’artista ha appreso le tecniche di lavorazione della pietra da uno scalpellino locale che lo ha avviato al mestiere all’età di quindici anni.
► Estratto dell’intervista collettiva a Dario Tazzioli – Siamo come dei nani sulle spalle dei giganti
All’interno del laboratorio, abbiamo avuto modo di osservare da vicino gli strumenti del lavoro, alcuni dei quali sono riproduzioni di antichi arnesi che Dario ha ricostruito attraverso un’attenta ricerca bibliografica. Dalle sue parole traspare una profonda passione verso questo mestiere artigiano oggi poco praticato, ma che gode di un apprezzamento non indifferente sia locale che internazionale.
► Estratto dell’intervista collettiva a Dario Tazzioli – Gli strumenti dello scultore
Il nostro incontro si è concluso esplorando il “giardino dei marmi”: un labirinto di vegetazione e pietra dove Dario espone alcune delle sue opere.
Montefiorino, Frassinoro, Palagano sono nomi che hanno cominciato a dotarsi, per noi, gradualmente di senso. Muovendoci sul fianco opposto del Dragone rispetto alla mattina, uno dei luoghi più carichi di significato per l’intero territorio, ma anche per la nostra esperienza, è stato la Buca di Susano, luogo simbolo della strage del 18 marzo 1944, che sconvolse diverse frazioni dell’odierno comune di Palagano: Monchio, Susano e Costrignano. Che significato ha questo luogo oggi? Cosa ci comunica del modo di rapportarsi all’eccidio?
Qui abbiamo incontrato Patrizia Dignatici, che ci ha parlato dei fatti di quel giorno. L’incapacità di trovare delle ragioni a quanto accaduto e il fatto che il cannoneggiamento venisse da Montefiorino – dalle colline di fronte, dunque – lasciarono un senso di stordimento tra la popolazione locale.
Inoltre, per gli abitanti della zona, in maggioranza contadini, la prima necessità era sopravvivere. Nel Dopoguerra, il silenzio calò su questi avvenimenti e lo stordimento cedette il passo ad un vero e proprio oblio. Molti testimoni del luogo, come ci ha raccontato Patrizia, non ne parlarono più, se non al processo aperto nel 2009. Una memoria, dunque, molto complessa e spesso taciuta.
► Estratto dell’intervista collettiva a Patrizia Dignatici – Una memoria a lungo taciuta
La difficoltà nell’elaborazione di queste memorie sembra aver pesato sulle vicende che hanno visto al centro la Buca di Susano, descritte da Patrizia. Questo luogo è, infatti, un simbolo fortissimo a livello locale: qui sorgeva un vecchio casolare dove furono uccise sei persone – una donna con i due figli, l’orfanello Carlo e due anziani – prima di dare la casa alle fiamme. Il rudere fu poi lasciato all’abbandono per decenni e dalle rovine nacque un ciliegio: un dato, questo, di per sé fortemente simbolico.
► Estratto dell’intervista collettiva a Patrizia Dignatici – Il ciliegio di Carlo
Oggi, però, la Buca è qualcosa d’altro: il casolare è stato ristrutturato grazie a finanziamenti provenienti dalla Repubblica Federale di Germania e sono quasi giunti al termine i lavori che stanno trasformando questo luogo in un memoriale dell’eccidio del ’44. Si è cercato di rispettare la planimetria della vecchia abitazione contadina, con un allestimento semplice; il vecchio ciliegio, nato spontaneamente, è stato sostituito da un giovane albero protetto dalle mura spoglie della casa. Nel progetto è prevista anche la costruzione di un’altra struttura, per ospitare convegni e incontri.
Lo scopo principale e dichiarato del luogo è quello memoriale: non dimenticare, ricordare i fatti e le vittime di quel giorno. Tuttavia, come ci spiega Patrizia, lo spopolamento rende difficile persino mantenere questi luoghi di memoria; così, per la Buca di Susano, si vorrebbe anche un’altra finalità: favorire il turismo, riportare persone su queste montagne. La struttura che affiancherà la Buca, infatti, potrebbe essere anche un punto di partenza per delle escursioni. Anche oggi, dunque, come nel Dopoguerra, la necessità primaria in questi luoghi di montagna è la sopravvivenza.
Ci siamo chiesti se la Buca di Susano possa rientrare nella definizione di terzo paesaggio: non si tratta più di un luogo abbandonato, ma non è ancora definita la sua identità odierna. I significati si sovrappongono e il luogo si rivela con forza come un sedimentato di storie, relazioni, identità. Il nuovo progetto ci parla soprattutto dei significati presenti e di una memoria con cui fare i conti. Il nodo risulta estremamente complesso. Ci dice qualcosa sul rapporto degli abitanti con l’eccidio, la volontà di ricordare, ma anche la difficoltà nell’elaborare il dolore del passato, testimoniata dalle vicende della Buca. Infatti, il progetto del memoriale è soprattutto opera di esterni e a livello locale gli abitanti non sembrano aver partecipato alle decisioni riguardanti il destino della Buca. Dunque, un luogo simbolico, ma avvolto dal silenzio.
Patrizia stessa, inoltre, è tornata in montagna per un bisogno personale di capire ed elaborare le memorie trasmesse – ma forse soprattutto quelle rimaste taciute – da suo padre Leo, comandante partigiano. Come le nostre precedenti interlocutrici, Giulia e Muriel, quello in questi luoghi è stato un ritorno dato dalla necessità soggettiva, ancor prima che pubblica, di indagare, di ricucire gli strappi.
► Estratto dell’intervista collettiva a Patrizia Dignatici – Ricucire gli strappi
Terza giornata
La mattinata di sabato è stata dedicata ad un’attività organizzata dall’Erbalonga: una camminata tranquilla, nel mezzo di campi coltivati ed incolti, partendo dal centro abitato di Vitriola per giungere sino alla spianata di Cervecchio, dove si era pensato di realizzare un momento di riflessione e scambio di opinioni tra i partecipanti alla Scuola, in merito agli incontri fatti nella giornata precedente.
L’Erbalonga, prendendo le parole con la quale si presenta nella sua pagina web: «É un progetto conviviale per la conoscenza del paesaggio attraverso il cammino lento tra storia, geografia e memoria della terra. Promuove la geoesplorazione nei paesaggi, per condividere insieme agli altri la cultura dei luoghi e delle persone che li abitano. Pratica il riconoscimento delle erbe spontanee e dei distinti linguaggi espressivi che ogni paesaggio genera e reinterpreta».
Il riconoscimento delle erbe spontanee e l’osservazione del territorio nel quale stavamo transitando sono state le attività stimolate e condotte da Antonella Zecchini, nativa di Vitriola e membro dell’Erbalonga.
Antonella ci ha raccontato come la sua conoscenza delle erbe spontanee risalga a quando, da bambina, percorreva i campi in compagnia della madre e di altre donne del paesino, in cerca di erbe commestibili con cui preparare diverse pietanze. La sua conoscenza della natura del luogo è quindi esperienziale, dovuta al fatto d’aver vissuto in quei luoghi e ad una trasmissione orale tramandata di generazione in generazione.
Antonella Zecchini:
Con questo Movimento dell’Erbalonga, la nostra idea è fare delle azioni di memoria: camminiamo, riconosciamo le erbe, gli diamo un nome, cerchiamo di fare un passaggio di conoscenza. […] Per noi si tratta di azioni di memoria: io so che in questo punto posso trovare la piantaggine, là posso trovare del sambuco, lì un’altra cosa. Sono erbe che crescono in libertà, ma ci sono anche dei punti di riferimento fissi per cui […] se voglio trovare le ortiche so che devo cercare un posto fresco, se voglio raccogliere l’iperico so che cresce in luoghi assolati ed esposti. Quindi davvero loro mi segnano la strada. Sento che ho detto “mi segnano” nel senso che si crea un po’ questa situazione per cui, ad un certo punto, ti metti a parlare con le piante, ti seguono, ti fanno compagnia: diventano veramente delle compagne di viaggio.
Durante tutta la camminata, durata circa una mezz’ora, Antonella ci ha presentato una decina di diverse erbe spontanee, invitandoci a toccarle, annusarle, assaggiarle e spiegandocene le proprietà. Alcune di queste le abbiamo raccolte, in vista di una preparazione culinaria, pianificata per il pomeriggio.
La piantaggine, le cui foglie centrali sanno di porcino, è una delle erbe spontanee che più si sono incontrate nel nostro cammino. Un’erba che ognuno di noi deve aver incontrato, ignorato e calpestato migliaia di volte, ma che solo in quel momento abbiamo capito essere molto più che un’erbaccia da calpestare o sradicare, quanto piuttosto un’erba commestibile dalle specifiche caratteristiche e qualità.
Un’attività così semplice e quotidiana, come potrebbe essere una passeggiata in un campo, ha assunto – grazie alla conoscenza che Erbalonga ha del proprio paesaggio e delle piante e erbe che lo abitano – un significato nuovo, generando un’inedita attenzione e consapevolezza rivolte allo spazio naturale e vegetale che ci circonda.
Il percorso è stato condotto all’insegna della multisensorialità, osservando, ascoltando, toccando e gustando la vegetazione locale. Dalla piantaggine, all’achillea, dalla cicoria, alla romice… abbiamo pregustato quegli ingredienti che nel pomeriggio sarebbero stati parte di una nostra personale creazione gastronomica: il “tortino del geostoriografo”.
La geoesplorazione: destinazione “il Cervecchio”. Vitriola sorge in un paesaggio di antichi terrazzamenti, cui si accede tramite ampi sentieri delimitati – e così sostenuti – da muretti a secco, oggi purtroppo in gran parte abbandonati a se stessi. La parte iniziale del cammino si dispiega nella cornice verde di un paesaggio agrario composto da prati stabili, campi avvicendati a grano ed erba medica, vigneti oggi finalmente rimessi a coltura (siamo alla quota limite di 700 metri sul livello del mare). Al Cervecchio siamo arrivati incrociando l’antica statale per Montefiorino e Frassinoro, inoltrandoci in una macchia di bosco che ci ha condotti al campo di proprietà della famiglia di Antonella. Lungo il tratturo di un ampio prato stabile abbiamo incontrato l’apicoltore Luigi Cappelletti, sostenitore attivo – tramite il conferimento e la gestione di una arnia – del progetto di rigenerazione del paesaggio agrario propugnato da Antonella. Luigi ci ha raccontato con dovizia di particolari e aneddoti arguti della sua grande passione per l’allevamento di questi insetti che rappresentano uno dei migliori indicatori dello stato di salute ambientale.
► Estratto dell’intervista collettiva all’apicoltore Luigi Cappelletti – Api: istruzioni per l’uso
Dalla sua descrizione dettagliata e scientifica, è passato a raccontare l’esperienza quotidiana con gli sciami, intessuta di relazioni affettive, finanche ape per ape. Ci ha quindi trasmesso il senso profondo di rispetto per il lavoro delle api.
► Estratto dell’intervista collettiva a Luigi Cappelletti – Fuco lifestyle
►Estratto dell’intervista collettiva a Luigi Cappelletti – Conversazioni con fauna (e flora)
Quella di Cappelletti è una passione che si lega a doppio filo con la sua memoria, cominciata a fianco del nonno e narrata nei suoi cambiamenti da allora ad oggi.
► Estratto dell’intervista collettiva a Luigi Cappelletti – Arnie e apicoltura di ieri e di oggi
Dalla narrazione sulle diverse modalità di produzione emerge in lui anche un dissenso piuttosto forte rispetto a certe pratiche produttive e modalità di consumo intrusive del miele, che non rispetterebbero il naturale fabbisogno delle api. In tal senso, Luigi lancia un appello per un consumo responsabile e porta la propria testimonianza di produttore alla ricerca di contrasto al problema dello spopolamento delle api.
► Estratto dell’intervista collettiva a Luigi Cappelletti – Problemi ambientali
► Estratto dell’intervista collettiva a Luigi Cappelletti – Esperimenti di convivenza
Dopo la conversazione con Luigi la camminata mattutina è proseguita e si è conclusa nel campo di Antonella. Quest’ultimo è un terreno di famiglia che, da incolto, sta prendendo recentemente una nuova vita grazie alle energie della sua proprietaria e delle persone del luogo.
► Antonella Zecchini –- Briefing Giorno 3, La radura di Antonella: dai rovi al trifoglio
La scelta di questo spazio ha indirizzato il gruppo a una riflessione sul paesaggio agrario, a partire dalle caratteristiche ambientali del luogo. La delimitazione spaziale fra le proprietà risulta ben riconoscibile quando si guarda allo stato della vegetazione: incolto “dimenticato” nel campo del vicino, incolto “in transizione” e parte seminato a fiori per nutrire le api quello di Antonella. Questo paesaggio ha spinto a ragionare sulla natura liminale di quel luogo: ciò che la paesaggistica recente ha definito terzo paesaggio. Questo è un luogo caratterizzato da biodiversità, parte nativa e parte in relazione dinamica con il paesaggio agrario in cui si trova immerso…
► Antonio Canovi – Briefing Giorno 3, Terzo paesaggio: liminalità e biodiversità
Dopo tali riflessioni il gruppo è poi tornato sul fulcro della propria presenza in quel luogo evocativo: condividere le riflessioni emerse a partire dagli incontri dei giorni precedenti nella valle del Dragone. Come è emerso più volte dai racconti delle persone intervistate, i paesi di questa valle sono dotati di una loro propria soggettività storica, infine di una distinguibile identità culturale. Infatti, a mezzo di un processo definibile come sineddoche storica – in cui la parte sono i fatti accaduti e il tutto sono i luoghi fisici della memoria – Montefiorino, Palagano e Frassinoro sono spiccatamente distinti tra loro dagli abitanti della valle.
► Antonio Canovi – Briefing Giorno 3, Montefiorino, Frassinoro, Palagano
Successivamente, il gruppo si è mosso verso una riflessione sulle differenze tra i contenuti delle due scuole nella valle del Dragone, quella presente e quella dell’anno precedente. Tra i partecipanti ad entrambe le scuole, è emerso come le più grandi differenze fossero legate ai soggetti protagonisti delle interviste. Nel primo caso, questi erano i protagonisti del periodo della Resistenza, nel secondo i loro figli e nipoti. Tale sostanziale differenza ha dato luogo a considerazioni circa i contenuti delle interviste e il lavoro stesso di raccolta/registrazione fonti.
► Antonio Canovi – Briefing Giorno 3, Sulla prima Scuola del Dragone
Se il principale problema riscontrato durante la prima Scuola è stato mettere a proprio agio i testimoni – non abituati al racconto degli eventi esperiti in prima persona –, nella presente Scuola ha invece rivestito un certo peso il confronto con la soggettività pubblica dell’intervistato. Ciò ha significato fornire al gruppo alcune istruzioni per l’uso: circa le tecniche d’intervista nella storia orale; i modi per filtrare la “corazza pubblica” posta in essere dai soggetti più avvertiti; le strategie di interlocuzione volte a “provocare” la memoria narrante; il riconoscimento e la decostruzione delle auto-rappresentazioni collettive dislocate nel corso della singola intervista.
► Antonio Canovi – Briefing Giorno 3, Storici provocatori
Allo scopo di rompere tali sedimentate dinamiche di co-costruzione identitaria, si è rivelato efficace porre domande circa le relazioni familiari dell’intervistato. Le reazioni di spaesamento e ricerca nella memoria ottenute a mezzo di queste domande hanno portato a far vacillare anche i soggetti apparentemente più forti del proprio ruolo civico.
Molte riflessioni interessanti sono emerse a partire da domande legate a questa tematica. Nella totalità delle interviste, è emersa, ad esempio, l’importanza della figura di un mentore. Questo, che spesso era un parente, è stato, in maniera più o meno coerente e continua, un elemento chiave della vita degli intervistati.
Ricollegare i fili della memoria di questo rapporto con quelli della soggettività dell’intervistato è uno dei compiti fondamentali dello storico orale. Egli, mediando tra la propria soggettività e quella dell’intervistato, tra le proprie esigenze di ricerca e quelle di espressione della controparte, deve essere in grado di trattare una testimonianza imparzialmente. I frutti di tale analisi possono poi emergere come utili tanto per la propria ricerca, quanto per ripensare al proprio universo di significati.
► Daniele Valisena – Briefing Giorno 3, Universi semantici a confronto nella testimonianza orale
Le riflessioni circa i rapporti familiari sono continuate ricollegandosi al tema della trasmissione della memoria familiare e personale. In particolare, si è notato come la distanza intergenerazionale condizioni la trasmissione della memoria. Infatti, se le seconde generazioni – figli di protagonisti e protagoniste di un particolare evento – sono emerse come escluse dalla trasmissione di una serie di sfumature emotive del genitore, ciò non è vero per le terze generazioni, ossia i nipoti. A loro, infatti, i nonni trasmettono generalmente una narrazione più densa e dettagliata di sé e di alcuni aspetti della propria vita.
La lontananza cronologica ed emotiva gioca probabilmente, tra le generazioni, un ruolo di filtro dell’esperienza: i protagonisti si aprono alla giusta distanza. Ciò è apparso essere vero anche per le narrazioni trasmesse al ricercatore. Talvolta, la sua appartenenza ad un contesto sufficientemente diverso rispetto a quello dell’intervistato, può rivelarsi la chiave per l’apertura di scrigni mnemonici. Questo è stato testimoniato anche dall’esperienza personale di ricerca di una partecipante della Scuola.
► Rossella Roncati – Briefing Giorno 3, Trasmissione della memoria tra seconde e terze generazioni
► Eugenia Pennacchio – Briefing Giorno 3, Testimonianza e distanza emotiva
Dal tema delle relazioni familiari e degli agenti oggettivi e soggettivi che filtrano la trasmissione tra intervistato e intervistatore, siamo passati poi ad una riflessione più ampia sull’importanza del contesto dell’intervista. Oltre al rapporto tra i soggetti protagonisti, resta da soppesare come tutta una serie di elementi “di contorno” condizionino fortissimamente l’intervista.
In particolare, ci siamo soffermati sull’influenza delle strumentazioni utilizzate dal ricercatore e, nella fattispecie, sullo strumento per antonomasia dello storico orale: il registratore. Rispetto a questo strumento sono emersi due punti di vista antitetici. Uno di questi vede il registratore come una “membrana”, utile ad apporre una distanza tra il ricercatore e l’oggetto-soggetto della sua ricerca. A tale immagine si è contrapposta quella del registratore come “catalizzatore” di significati, strumento neutrale e utile all’arricchimento di informazioni. Riflessioni parimenti rilevanti sono emerse anche in relazione allo strumento, ancor più invasivo, della videocamera.
► Francesca Liguori, Mauro Capecchi – Briefing Giorno 3, Registratore “membrana” o fonte d’arricchimento?
► Antonio Canovi – Briefing Giorno 3, Telecamera: linguaggio storico e linguaggio tecnico
A partire da queste due prospettive polarizzate sulla strumentazione dello storico orale, si è poi tracciata una linea di continuità, sottolineando come la connotazione che questo strumento viene ad assumere è legata a doppio filo con le soggettività dei protagonisti dell’intervista. Prerequisito fondamentale è la relazione tra intervistatore e intervistato, nonché il consenso, più o meno esplicito tra di essi.
► Ilaria Strampelli – Briefing Giorno 3, Relazione e consenso
Infine, è emersa anche la ricchezza di un’esperienza come la presente, focalizzata sulla pratica della raccolta di fonti orali in quanto fonti “per la storia”. Questo tipo di attività laboratoriale attiva porta infatti con sé una serie di suggestioni e stimoli tali per cui il momento di decompressione, riflessione e condivisione di cui si va raccontando è emerso come fondamentale.
► Alessandro Casellato – Briefing Giorno 3, Storia orale sul campo
Tornati a Vitriola, con le erbe raccolte nel corso della geoesplorazione mattutina e qualche altro ingrediente naturale – fra i quali uova, ricotta, formaggio grattugiato, frutta secca macinata – è stato proposto ad ognuno dei partecipanti alla Scuola estiva, di realizzare un tortino interamente composto di erbe raccolte in situ.
Il tortino del geostoriografo è stato realizzato in simultanea dai partecipanti alla maniera di un gioco di libera esplorazione “nel paesaggio”: avendo a disposizione una scelta importante di erbe e frutti, nel corso della preparazione ciascuno ha dosato gli ingredienti a proprio piacimento e immaginazione.
Antonio Canovi ci ha spiegato l’idea alla base di questa esperienza: creando una propria composizione gastronomica, i partecipanti hanno dato una personale, giocosa, interpretazione del paesaggio esplorato. Una traduzione culinaria del lavoro del ricercatore il quale seleziona i documenti (ingredienti), li interpreta attraverso una propria lettura (ricetta) e produce infine una storia (tortino).
Infine, tutti abbiamo avuto un assaggio di tutto.
Il dopocena è stato dedicato a un concerto attorno al fuoco, nel giardino della casa di Antonella, con Gabriele “Lele” Chiodi e Flavio Borelli; Lele è un cantastorie di grande esperienza, collaboratore di Francesco Guccini e protagonista del folk revival italiano degli anni Settanta; Flavio è suo nipote, ha quarant’anni di meno, è un musicista e frequenta il Master in Public History di Modena, con una ricerca in corso sui canti popolari nell’Appennino modenese.
► Prima del concerto, Flavio Borelli risponde ad alcune domande di Alessandro Casellato sulla sua ricerca sui canti popolari nel modenese
Sovente, nei suoi incontri cantati, Lele inserisce una dolente ninna-nanna da lui raccolta nell’area di Pavullo nel Frignano (MO) alla metà degli anni ’60 del Novecento.
Nanin Pupin/Che la mama l’è andà al mulin/El papà le andà al mercà/a cumprè un viulan/Viulan in gambarossa/vòt save quant la me costa/La me costa na quarantana/tre di stoppa e tre di lana/Dinde le don el papa l’è andà in perzon/Per dù sold ed furmenton/La me costa na quarantana/tre di stoppa e tre di lana/
Nanin Pupin/Che la mama l’è ‘ndà al mulin/El papà le andà al mercà a cumprer un viulan/Viulan in gambarossa/vòt save quant la me costa/La me costa na quarantana/tre di stoppa e tre di lana/
Dinde le don/al campèn ed Sen Simon/el papà a mangià i pan cot/E la mama a ciapà dal bot/Nanin Pupin.
► Nanin Putin, Lele Chiodi e Flavio Borelli
Una parte importante della summer school è consistita nel lavoro di riflessione sul paesaggio a mezzo dello strumento fotografico, più precisamente analogico e montante rullino in bianco e nero.
Questa è stata la scelta di Luca Monaco, il mentore di questo percorso visual. Perché questa scelta? Nella serata introduttiva alla summer school Luca ha introdotto a questo tema facendo riferimento al potere che ha dato fama e prestigio alla fotografia, quello di rappresentare il reale. In tal senso il lavoro del fotografo non si distanzia di molto da quello dello storico.
►Luca Monaco – Fotografia come rappresentazione della realtà
Con lo sviluppo delle tecnologie fotografiche digitali nonché delle modalità di archiviazione dei dati si è reso molto più semplice e intuitivo l’atto di fotografare. Questa azione è oggi ipersemplificata al punto che la relazione originale, tra macchina fotografica e supporto cartaceo utile alla visione di quanto scattato, è venuta sempre meno. Assieme a tale relazione si è teso alla riduzione dello sforzo atto a pre-visualizzare la fotografia stessa.
►Luca Monaco – Pre-visualizzazione e latenza del risultato.
L’utilizzo della fotografia analogica è un atto volto a riscoprire la strabiliante potenzialità della fotografia ad immortalare e fissare il piano della realtà in maniera creativa. Essa, in tal modo, ci consente di entrare in un frammento di reale con la nostra identità.
Ma perché la scelta del supporto analogico, piuttosto che quello digitale? Non per un semplice gusto per ciò che è retrò, per quanto una macchina analogica rivesta sempre un certo fascino. Questa scelta è stata fatta, da un lato, perché la relativa difficoltà dello scatto analogico tende a far prestare maggiore attenzione a quanto ne è effettivamente il contenuto. Dall’altro lato, i dati fotografici così prodotti sono sottoposti ad un automatico processo di pre-selezione. Il risultato è un lavoro che vuole essere poco cumulativo e molto incisivo evitando la ridondanza di dati, tema che si lega a quello dell’archiviazione, molto caro ad AISO. In tal senso, infatti, la fotografia analogica si è dimostrata essere un ottimo mezzo di riflessione sul documento orale.
I parallelismi sono molti, si pensi ad esempio a come entrambi i tipi di documenti siano soggetti alla condizione attivamente impermanente del soggetto rappresentato, quanto di quello rappresentate. E parimenti oggetti di discussione in termini di selezione e conservazione, ma soprattutto può essere anch’esso un densissimo reticolo di fili della memoria.
► Luca Monaco – Racchiudere i differenti piani della fotografia in pochi scatti
► Luca Monaco – Confronto tra (18) diversi piani narrativi
Dunque la scelta della fotografia analogica in b/n è stata per Luca Monaco un esercizio verso il “minimalismo”, se vogliamo allo scopo di spingere alla riflessione sul contenuto dei propri scatti e sulla relazione tra il paesaggio della valle del Dragone e i suoi protagonisti.
► Luca Monaco – Come si scatta una foto
In tal senso, i partecipanti hanno sperimentato in prima persona la lentezza relativa dei tempi della fotografia analogica: dalla preparazione della strumentazione, alla scelta della composizione sino alla parte di stampa e post produzione (il prode Luca si è rinchiuso in camera oscura dalle quattro del pomeriggio all’una di notte!) per giungere infine all’editing e alla scelta degli scatti più rappresentativi. Specie in quest’ultima parte, il rallentamento dei tempi si è contrapposto alle necessità di portare a compimento una scelta finale.
Quarta giornata
Grazie alla Scuola abbiamo avuto un’intensa immersione nel paesaggio, nella storia e nella memoria della valle del Dragone: l’abbiamo attraversata, ne abbiamo assaggiato (e cucinato) i prodotti, abbiamo raccolto le voci dei suoi abitanti e percorso cammini segnati dalla guerra e dalla Resistenza. Abbiamo esercitato l’ascolto, (ri)conosciuto sapori e attivato i nostri sguardi. Un’esperienza profondamente sensoriale, che non poteva non concludersi che con un’ultima attività laboratoriale.
Nel corso della quarta mattinata, Luca Monaco ci ha proposto un esercizio di geohistory telling finalizzato a sintetizzare, a livello visivo, l’esperienza avuta nei tre giorni precedenti scegliendo, tra gli scatti sviluppati, sei immagini significative per il gruppo. La nostra prima preoccupazione è stata stabilire dei criteri di selezione, ma Luca ci ha immediatamente invitato a liberarci di questa “deformazione professionale” tutta tesa a ricercare un rigore scientifico e piuttosto «stare sulle foto, sugli oggetti, e vedere da lì cosa viene fuori».
► Luca Monaco – Affrontare corpo a corpo le immagini
Il lavoro di editing ha stimolato anche una riflessione sull’interdisciplinarietà degli strumenti e delle metodologie d’analisi del lavoro fotografico. Tale riflessione si è spinta fino al paragone di tale lavoro di post-produzione con quello propriamente del lavoro storico. In termini di storia orale, l’analisi delle fotografie in forma stampata, e dunque palpabile (medium)¸ è emersa essere tanto importante per il fotografo/curatore quanto l’analisi delle registrazioni audio per lo storico orale. In entrambi i casi infatti, solo attraverso il ritorno, fornito dalla ri-visione e dal ri-ascolto del lavoro che si è contribuito a creare, si può effettuare una ri-lettura fondamentale, così da portare alla luce, in maniera ancor più decisiva, il proprio sé. In sintesi, si può dire – usando le parole di Luca Monaco – che sia il fotografo che lo storico cercano di ricostruire a proprio modo le “coordinate spazio-temporali del piano della realtà”.
►Luca Monaco – Rilettura delle immagini come il riascolto delle registrazioni audio
► Luca Monaco – Produzione di significati nella scelta dei 6 scatti conclusivi
Sintetizzare un’esperienza di gruppo, ma anche individuale, non è stato semplice. Su alcune fotografie c’è stato un immediato consenso: ad esempio eravamo tutti d’accordo nell’inserire un’immagine di Alessandro Casellato e Giulia Bondi, scattata durante l’intervista presso il Museo della Repubblica di Montefiorino, perché per la sua composizione ci sembrava rendesse perfettamente l’essenza dialogica dell’intervista. Altre fotografie hanno richiesto maggiore discussione, ed è stato molto interessante confrontarci anche sulla collocazione da assegnare ad ognuna di essa nella composizione piramidale richiestaci da Luca. Siamo infine giunti ad un’interpretazione collettiva, alla quale abbiamo brindato salutando la valle del Dragone.