Una recensione in-attuale del docufilm “Storia dal qui” di Eleonora Mastropietro
Lo scorso anno ho avuto la fortuna di dover passare diverse ore con la testa e gli occhi immersi nel ricchissimo archivio del Festival dei Popoli di Firenze. Voci, memorie e storie hanno per mesi invaso le mie giornate mentre setacciavo e mettevo insieme un corpus di titoli per la mia ricerca.
Nel film che vi voglio raccontare ci sono inciampata per caso in uno di questi pomeriggi di bulimiche visioni, a cavallo tra maggio e aprile. Il documentario non è neppure entrato a far parte del mio corpus, scartato subito perché non attinente al filone tematico di cui mi stavo occupando. Eppure, per qualche motivo (e se vorrete continuare a leggere proverò a sciogliere questo “qualche” in “perché”), questo film ha continuato a risuonarmi dentro. Mi sono appuntata sul taccuino “scrivici su qualcosa!” e con la recensione che segue — in-attuale come la storia che racconta — mi appresto a mantenere quella promessa.
“Storia dal qui” è un docufilm del 2018, opera prima della regista e geografa Eleonora Mastropietro. Ma soprattutto è una storia che ho ragione di credere interessi a molti di noi, soprattutto a chi riconosce nella storia orale uno strumento adatto alla riemersione delle memorie personali e pubbliche, alla problematizzazione (anche poetica) delle faglie narrative e politiche; e a chi pone fiducia nella capacità dello sguardo autoriale del cinema di tenere insieme tutto questo per immagini e parole. L’urgenza di questo racconto (quello della Mastropietro e il mio) nasce anche dalla convinzione autobiografica che raccontare i posti che si lasciano è un’operazione cognitiva ed emotiva molto faticosa. E a volte per farlo è necessario che siano le voci degli altri a “vedere” per te, a descrivere i fatti e le persone che si trovano a distanza per posizionarle nuovamente vicine — se non nello spazio almeno nelle memorie.
Il film prende forma all’interno della cornice dell’associazione La Fournaise, fondata dalla stessa Mastropietro nel 2013, il cui scopo è esplorare “le relazioni tra racconto, immagini e territorio”, utilizzando prevalentemente il linguaggio audiovisivo del documentario e/o del racconto fotografico. Il documentario Storia dal qui, pur nascendo all’interno di un manifesto di intenti collettivo, è però prima di ogni cosa una storia autobiografica. Quella della regista è infatti la prima voce narrante e il “qui” oggetto del racconto è Ascoli Satriano, il paesino d’origine dei genitori della Mastropietro, ovvero lo scenario delle sue estati da bambina e la sostanza di tanti racconti familiari.
Ascoli Satriano, Puglia. Un piccolo paese dell’entroterra. Un luogo del “qui non c’è niente”, come dicono tutti a Eleonora, arrivata dopo anni in paese da Milano, il luogo del “lì c’è tutto”, dove si sono trasferiti i suoi genitori negli anni ’60. Emigrata non per scelta. Emigrata di seconda generazione. Separata da un “qui” che non ha mai conosciuto, ma che da sempre è stato nella sua testa in forma di racconti, di accenni e testimonianze. Scesa per dare un’immagine a parole non sue: a quelle della sua famiglia e a quelle di Adele, la bambina del paese conosciuta nell’unico viaggio a sud, fatto nell’infanzia con i genitori. Adele che per anni ha scritto lettere a cui Eleonora non ha mai risposto. Adele, con cui Eleonora avvia oggi un dialogo impossibile, fuori dalla sincronia del tempo e in uno spazio che è in gran parte immaginario. (Sinossi del film tratta da http://www.lafournaise.it/it/produzioni/storia/ consultata il 19/11/2022)
Il pretesto narrativo per iniziare questo racconto in differita è dunque proprio un dialogo. Quello tra Eleonora e Adele — amica di penna, ipostasi del piccolo paesino, segnaposto fisico e mittente concreto. Adele scrive dal “qui”, Ascoli Satriano, ed è a lungo per Eleonora la prova che il “qui” continua a esistere anche quando lei è via, a Milano, nei lunghi mesi invernali.
E se è vero quello che dice de Certeau sul fatto che si faccia storia sempre a partire da un’assenza (M. de Certeau, 1975) , la storia dal “qui” di Eleonora è tutta condotta in assenza di Adele, l’autrice delle lettere, motore della ricostruzione memoriale e dell’input narrativo, ma assente dalle riprese e dalla narrazione al tempo presente. Questo scarto è fondante per l’estetica del documentario e in linea con il desiderio della regista di dare spazio a voci altre rispetto alla sua autobiografia.
Il film, iniziato nel luglio del 2018, è infatti una sorta di risposta per immagini alla prima lettera inviata da Adele nel 1987. Nei quasi trent’anni che scandiscono questo dialogo in absentia, Satriano è diventata sempre di più per la regista una città visibile solo attraverso le narrazioni degli altri. “Sono venuta ad Ascoli Satriano per dare un’immagine alle tue parole e a quelle dei miei genitori” dice la voce fuori campo della Mastropietro all’inizio del documentario, enunciando sin da subito l’intento politico ed estetico del suo guardare, chiedere, ricordare.
In questa ricerca di testimonianze e memorie, l’ordine della narrazione è solo apparentemente casuale ruotando in realtà attorno a un filo conduttore unico: la festa cittadina del ciuccio (l’asino) di cartapesta. A caccia di racconti e immagini, la regista torna infatti al paese in occasione dei preparativi per la festa del patrono cittadino, San Potito, un “martire giovinetto” di cui ho trovato ben poche informazioni online.
La leggenda narra che un mulattiere di Tricarico si dirigeva verso Ascoli Satriano, sul tratturo Palmo-Palazzo d’Ascoli-Foggia e il torrente Carapelle. Nella sua carovana vi era un asino che stanco per il lungo viaggio e per il pesante carico che trasportava, affondò nei fanghi della mefite da dove non poté in alcun modo essere tirato fuori. Il mulattiere spostò il carico di merci sulla soma di un’altra bestia e, senza perdere tempo, soppresse il povero asino sul posto. Da buon commerciante, ebbe cura di scuoiarlo per vendere la sua pelle. Prima di rimettersi in cammino, rivolse una preghiera a San Potito, che si diceva martirizzato in quella località. Percorso un tratto di strada, il mulattiere sentì i ragli lamentosi del suo asino. Impressionato dal fenomeno tornò indietro e vide la bestia scuoiata venirgli incontro. Felice del recupero della bestia, le rimise addosso la pelle ma a rovescio. L’asino, così conciato, lo guidò nuovamente sulla mefite, dove era risorto miracolosamente. Tornato in quel posto il mulattiere, convinto di trovarsi di fronte a un evento straordinario, prese a scavare, pregando, tra i fanghi della mefite, dai quali affiorò il corpo intatto di un adolescente. Certo di aver scoperto il corpo di San Potito, il mulattiere compose degnamente le sacre spoglie e per commemorare l’evento prodigioso, gli ascolani presero a recarsi in pellegrinaggio sul luogo del martirio del loro Santo. (Dalla pagina wikipedia dedicata a San Potito: https://it.wikipedia.org/wiki/San_Potito, consultata il 20/11/2022).
Le donne che costruiscono il ciuccio vengono riprese e intervistate durante la realizzazione della scultura. Sono loro a raccontare la storia del santo e quella della festa. Una festa di paese pensata per riunire la comunità: chi è restato e chi è partito. Infatti, originariamente le celebrazioni avvenivano solo in inverno – secondo il calendario cattolico la festa del santo cade il 14 gennaio – ma, con il crescere del fenomeno della migrazione interna, la comunità ha deciso di replicare l’evento anche nella stagione estiva così da permettere a “chi è partito e vive al Nord” di festeggiare il santo locale durante la permanenza al Sud che di solito corrisponde alle ferie estive. La stessa regista ammette di “non avere parole che la guidino nell’inverno” perché è stata al paese solo d’estate e anche le lettere di Adele riguardano solo l’estate. La festa di San Potito è dunque un simbolo narrativo del paese, della sua comunità e del suo passato recente che ne ha mutato la stagionalità rendendola uno strumento di aggregazione anche trans-geografica.
Alle donne, la regista chiede di raccontare la storia della festa e del ciuccio ottenendo risposte disomogenee sul suo mito fondativo. La restituzione è corale ma frammentata. Una testimonianza rimbecca l’altra, si litiga sui dettagli e sulla versione giudicata più corretta e dunque degna di essere consegnata alla videocamera. Nel processo di selezione, abilmente filmato dalla regista, le versioni spurie vengono sanzionate; davanti alla telecamera e ai microfoni della troupe assistiamo in presa diretta alla creazione e messa appunto della versione concordata— quella che nei racconti familiari è destinata di solito a sclerotizzarsi e diventare normativa.
Nel giro di poche scene la regista mostra con chiarezza come la memoria sia sempre “atto narrante di un individuo in un contesto sociale” (L. Passerini, 1981, p. 85). E nel documentario più volte il contesto sociale è evocato, ripreso, raccontato, ricostruito, messo al centro e sintetizzato, grazie a quel processo che lo storico Marco Mietto descrive molto bene in una pubblicazione del 1990 dedicata alla memoria del Ventennio, le cui riflessioni però possono senza dubbio essere generalizzate:
Se consideriamo l’atto di memoria, ci rendiamo conto, anche solo per intuizione, che il soggetto è ‘processo di sintesi’ e “sintesi di molte determinazioni”. Se poi consideriamo la dialettica tra memoria individuale e memoria sociale e collettiva, potremo agevolmente intendere quanto questo “processo di sintesi” tende all’universale. Che poi vuol dire che ogni individuo è, in se stesso, un “mondo” (M. Mietto, 1990, pp.143-158)
I “mondi” di Ascoli Satriano sono molteplici e convergono, la regista li cuce insieme grazie al montaggio e alle immagini che si aprono in maniera malinconica alla memoria personale (l’emigrazione) e collettiva (la tradizione, la festa e le usanze). Questi due piani si fondono nelle voci dei protagonisti del film.
Tra le voci raccolte c’è anche quella del piccolo Michelino, un ragazzino del luogo che si offre come guida per la regista e la sua equipe tra i vicoli del paese. Michelino è un Virgilio che corre veloce tra le traverse e le scorciatoie (“prendi di qui”, “da qui si taglia”) e rappresenta l’anello di congiunzione tra la Eleonora bambina e la Eleonora adulta che filma le strade della sua infanzia. Michelino concede alla regista un’intervista in cui a sua volta racconta della festa di San Potito e della sua passione per i fuochi. Insieme ai suoi amici il bambino infatti realizza una processione ad usum delphini, parallela a quella degli adulti, con tanto di asinello in cartapesta e petardi. “Voglio che questa tradizione va avanti negli anni” dice Michelino alla telecamera “se vai su YouTube trovi i video ‘ciuccio Ascoli Satriano’. Ci sono anche quelli antichi del 1980, 1990”.
Altro protagonista del racconto per immagini e testimonianze dal “qui” è Antonio, un coetaneo di Eleonora che vive ad Ascoli e fa l’operaio. Se Michelino è la bambina che Eleonora è stata, Antonio è l’adulto che Eleonora avrebbe potuto essere se i suoi non fossero mai partiti.
Eleonora lo intervista nello studio di casa sua dove Antonio passa le ore a disegnare dando vita al personaggio immaginario Pol-pet (un altro alter ego!). Per Antonio “è un rito stare ad Ascoli. Una cosa che fai con devozione. Vivo Ascoli come un rito per non averlo a noia”.
Vivere un posto come rito, raccontarlo come tale, è una pratica che in fondo accomuna le vite di chi è restato e di chi è partito. E lega insieme la testimonianza di Michelino, quella delle donne del ciuccio e quella di Antonio alle lettere di Adele e ai ricordi di Eleonora: il radicamento al territorio delle loro testimonianze e la consapevolezza del suo mutare, spopolarsi, cambiare.
Uno dei punti di forza del documentario è infatti il riuscire a restituire con forza il contesto in cui le testimonianze orali sono state raccolte mostrandocele nei loro spazi, nel paesaggio di cui si fanno voce. Espressioni, silenzi e gesti rimangono impressi tanto quanto le parole dette. Il paese com’è e il paese com’è immaginato si incontrano nelle lunghe riprese di paesaggio che scandiscono il documentario.
“Mi chiedo se chi scende vede il paese per com’è o con la nostalgia vedono un paese immaginario”, si interroga la voce fuori campo. La piazza, le luci delle luminare, il buio della campagna, la pioggia, la ferrovia. E poi le VHS che ritraggono dei bambini (tra cui l’amica Adele) in campagna nel podere della nonna trent’anni prima. Cosa racconta il paesaggio abbandonato? Il paese che si svuota e la memoria che viene meno? L’intento della Mastropietro è sicuramente quello di voler “fare storia con la memoria”. Una storia dal “qui”, dove il “qui” riaggancia la narrazione al presente, a quello spazio geografico visto e filmato che è e significa anche tutto l’investimento emotivo presente nello sguardo della regista. Luoghi che si accendono di senso e sentimento perché sono indistricabilmente presente e memoria, dimostrandoci che è possibile fare una storia con la memoria e con il paesaggio per parlare di emigrazione, di Sud, di ritornare. E ribadendo per immagini e parole che “è venuto il momento di ripensare ad una storia ‘con’ la memoria, di praticare cioè una storiografia che sappia ‘trattare’ scientificamente i materiali esperienziali” (A. Canovi, 2011).
Nota bibliografica
Canovi, Antonio La Storia comincia rasoterra. Pensare nella territorialità, abitare nel paesaggio: introduzione alla Geostoria, 2011: http://archiviopiacentini.it/uncategorized/pensare-nella-territorialita-abitare-nel-paesaggio-introduzione-alla-geostoria/ (ultima consultazione 19/11/2022)
de Certeau, Michel L’Écriture de l’histoire, Gallimard, Parigi, 1975
Mietto, Marco La memoria del ventennio. Ragionare di metodo, «Ricerche Storiche», a. XXIV, n.64/66, 1990
Passerini, Luisa Sette punti sulla memoria per l’Interpretazione delle fonti orali, «Italia contemporanea», n. 143, 1981