Alcuni mesi fa – 13 aprile 2018 – si è svolto a Modena un convegno dal titolo Tra Oral e Public History. Partecipare la storia nel tempo presente, nell’ambito del Master in Public History dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Sono temi di cui abbiamo continuato a parlare in seno all’AISO, che ultimamente è stata interpellata da diversi soggetti per contribuire al processo costituente della Public History italiana. Per questo ci pare opportuno pubblicare le riflessioni elaborate da Antonio Canovi e Paolo Bertella Farnetti a margine di quel convegno.
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L’Italia presenta una esperienza consolidata di studi e buone pratiche di Oral history e una più breve, ma già intensa pratica di Public history.
La O.H. nasce in Italia fuori dalle accademie universitarie, come risposta anche politica – nella temperie seguita alla seconda guerra mondiale – al bisogno diffuso di riconoscimento sociale, culturale e memoriale avanzato da comunità locali e soggetti collettivi engagé. Di qui il marchio militante – talvolta patito, talaltra rivendicato – impresso a questa storiografia che si connota sin dalle origini per le fonti che utilizza, piuttosto che definirsi sui contenuti.
L’analisi rivolta alle condizioni di produzione della fonte orale è il segno distintivo e riconosciuto sul piano internazionale della O.H. italiana. Gli storici orali italiani, dedicandosi alla memoria e alle memorie così trascurate dagli storici tradizionali hanno inventato processi e modi inediti di autorialità. Porre l’accento sul fare ha comportato la elaborazione e condivisione metodologica di una economia morale della ricerca, nella consapevolezza che gli storici orali sono minatori di ricchezze storiche che rimarrebbero altrimenti celate, forse per sempre perdute. Le loro raffinate competenze offrono una skill necessaria per lo storico del tempo presente.
Ma in che modo questo lavoro metodologico può servire allo sviluppo della P.H. in Italia? E per quali vie lo storico P.H. può rendere public il prezioso lavoro dello storico orale? Come operare, insieme, per far uscire dall’armadio le voci “imprigionate” di cui ha raccontato Sandro Portelli?
Nel corso del convegno sono state riconosciute alcune analogie tra i due approcci disciplinari. Nella genesi: nascono e si sviluppano entrambi fuori dall’accademia. Nelle finalità: la produzione di conoscenza coincide con la volontà di trasformare la società. C’è, ancora, una sintonia sul piano epistemologico: sono storiografie che rivendicano la co-costruzione dei processi di costruzione storica.
Storia partecipata, sharing authority, coautorialità? Sono davvero la stessa cosa? Lo storico orale e il public historian agiscono in “corpo a corpo” con le proprie fonti, mai in solitudine. Su questo c’è accordo, meno su quale sia il proprio posto (deontologico) nel processo di costruzione della operazione storiografica.
La O.H. si è definita attorno allo statuto della fonte: il suo atout è la decostruzione del discorso pubblico imbastito su fonti istituzionali dalla storiografia con la “esse” maiuscola. La P.H. definisce il proprio statuto a partire dal making, le condizioni di produzione dell’history telling. Forse è una differenza di accenti, forse qualcosa di più sostanziale.
L’idea che la storia “si faccia da sola” e i testimoni e i fruitori comunichino tra di loro saltando il piano degli storici/analisti non convince, anzi preoccupa, gli storici orali. P.H. – sostengono – non può significare accettare ciò che la memoria collettiva ci propone, infine convergere su di una pretesa storia condivisa. Forse è qualcosa di sostanziale.
Per gli storici P.H. presenti al convegno è piuttosto una questione di accenti. Condividere tra lo storico e il suo pubblico il progetto storiografico, hanno teso a ribadire, non significa prefigurarne l’esito. La P.H. – rilanciano – apprende a maneggiare gli strumenti professionali con i quali si comunica la storia, come fece alle origini la storia orale introducendo il magnetofono.
Il confronto è avviato: nella convinzione comune che “una storia esiste soltanto quando viene raccontata”.