Tre anni fa, l’8 ottobre 2015, l’Accademia di Svezia annunciava il conferimento del Premio Nobel per la letteratura a Svetlana Aleksievic. Raccoglitrice di storie e scrittrice polifonica, Aleksievic è una di noi: ha praticato la storia orale incontrando persone, registrando racconti, trascrivendoli e pubblicandoli avendo cura di rispettare quel che era stato detto, cioè la verità di ciò che aveva ascoltato. Ne ha ricavato letteratura, sviluppando il genere del “romanzo di voci”, come lo definisce lei stessa.
Goffredo Fofi l’ha collocata in una genealogia culturale che comprende anche Tolstoj:
Svetlana Aleksievič ha scritto da qualche parte: “Per sentire cose nuove bisogna porre domande nuove”. Bisogna in qualche modo che noi ci mettiamo all’altezza dei tempi che viviamo e dei problemi del tempo in cui viviamo. Lei questo ha cercato di farlo. Non è la sola e non è neanche l’iniziatrice di una storia. Io non sono un esperto di letteratura russa, però per me è stato fondamentale leggere tanti anni fa, in una vecchia edizione di Carabba-Lanciano, un piccolo libro di Tolstoj che si chiamava Le memorie di una contadina. È il primo esempio a mia conoscenza di uno scrittore – un grande scrittore – che raccoglie le storie di una donna analfabeta e lavora su questo. Le trascrive a mano, la intervista, e da questo materiale ne tira fuori un libro.
Anche in Italia, continua Fofi, esiste una tradizione di ricerca sociale simile a quella praticata da Aleksievic.
È poi quello che in tempi più recenti hanno cercato di fare molti in Italia. Non lontano da qui, a Cremona, Danilo Montaldi ha scritto un libro intitolato Autobiografie della leggera. Sono storie di vita, alcune scritte in modo sgrammaticato dagli stessi intervistati, aiutati da Danilo, altre registrate e trascritte da Montaldi. Sono storie della “leggera”: il giro dei vagabondi, dei venditori di strada, degli strilloni, dei propagandisti del piccolo sindaco del posto che se ne serviva per le elezioni. Era questa umanità strana detta “alla leggera”, perché sembravano quelli che prendevano la vita alla leggera, ma che non erano veri operai, veri contadini, non erano stabili: erano vagabondi. E sono storie attraverso le quali si illumina la storia della Pianura Padana, la storia delle lotte sociali in Italia, si illuminano le trasformazioni sociali ed economiche del nostro Paese. Ma dopo di lui e contemporanei a lui ce ne sono stati tanti altri. Solo negli anni ’50, Danilo Dolci, Rocco Scotellaro con Contadini del Sud, Franco Cagnetta con Inchiesta su Orgosolo, Franco Alasia con Milano, Corea, scritto insieme a Montaldi sugli immigrati a Milano. Insomma, hanno trascritto storie di individui reali per raccontare le trasformazioni del Paese e per confrontarsi con la realtà del Paese. In Italia fino alla fine degli anni ’60 la maggioranza o quasi della popolazione era formata da analfabeti. Un Paese dove gli oppressi non avevano voce; si trattava quindi di dare voce a quelli che non l’avevano e questo compito se lo sono posto molti intellettuali negli stessi anni. Sono infatti gli anni in cui Pasolini raccoglie i canti popolari italiani, 1955; l’anno dopo esce da Einaudi – i due contemporaneamente lavoravano e si conoscevano, si scrivevano, si scambiavano idee – Fiabe italiane di Calvino, la trascrizione di un enorme patrimonio di cultura popolare. Ancora, Cassola e Bianciardi, I minatori della maremma, un’inchiesta della metà degli anni ’50. C’era un interesse a capire chi eravamo, che cos’era il nostro popolo, cos’erano gli analfabeti. Tutto questo in una chiave molto politica, nel senso che si parlava allora di “inchiesta partecipata”: attraverso l’incontro con la persona da intervistare si cercano di affrontare insieme i problemi all’interno di una comunità o di un gruppo di lavoro. Si cerca di raccontare il mondo, le trasformazioni, una parte della società che non scrive sui giornali, che non pubblica i libri.
Quando ha ricevuto il Premio Nobel, il 7 dicembre 2018, Aleksievic ha cominciato il suo discorso ufficiale ricordando le voci di cui sono fatti i suoi libri, cioè le persone ascoltate raccontare la storia che avevano vissuto:
Non sono sola su questo palco… Ci sono voci intorno a me, centinaia di voci, sono sempre con me. Fin dalla mia infanzia. Ho vissuto in un villaggio. Noi bambini amavano giocare all’aperto, ma quando calava la sera, le voci delle donne del villaggio che si radunavano stanche sulle panche vicino alle loro case ci attiravano come calamite. Nessuna di loro aveva mariti, padri o fratelli. Non ricordo uomini nel nostro villaggio dopo la seconda guerra mondiale: durante il conflitto morì un bielorusso su quattro, combattendo al fronte o con i partigiani. Dopo la guerra noi bambini vivevamo in un mondo di donne. Più di tutto mi ricordo le donne parlare non di morte, ma d’amore. Raccontavano di come avevano detto addio ai loro uomini, dicevano che li aspettavano e li stavano ancora aspettando. Erano passati anni, ma loro continuavano ad aspettare: “Non mi importa se è senza braccia e senza gambe, lo trasporterò io”. Senza braccia… senza gambe… credo di aver saputo fin dall’infanzia cos’è l’amore.
Quindi ha letto tre lunghe citazioni tratte da interviste, cioè da incontri con persone che le hanno raccontato di sé in relazione alla guerra, alla tragedia di Cernobyl’ o alla vicenda del comunismo in Unione sovietica. E ha spiegato il suo modo di porsi di fronte ad esse, un atteggiamento che è alla radice del proprio mestiere:
Flaubert si definiva un “uomo-penna”; io potrei dire di essere una “donna-orecchio”. Quando cammino per strada e colgo parole, frasi ed esclamazioni, mi dico sempre: quanti romanzi spariscono senza lasciare traccia! Spariscono nell’oscurità. C’è tutta una parte della vita umana, quella parlata, che non riusciamo a cogliere attraverso la letteratura. Non l’apprezziamo per il suo valore, non ci stupisce, non ci appassiona. Ma a me affascina, ne sono rimasta prigioniera. Adoro il modo in cui parlano le persone… adoro le voci umane solitarie. È la cosa che amo di più, la mia passione. Nella lectio magistralis letta a Stoccolma, Aleksievic ha spiegato il suo metodo di lavoro: scegliere un grande tema di storia collettiva, incontrare centinaia di persone, registrare migliaia di racconti, tenere un diario dei viaggi e degli incontri, selezionare e trascrivere quel che si è registrato: “Qui non deve esserci spazio per l’invenzione. La verità va restituita così com’è“. Ma che cos’è la verità che va cercando? Mi ha sempre tormentata il fatto che la verità non possa essere racchiusa in un solo cuore, una sola mente. E che sia così frammentata, che di verità ce ne siano molte e diverse, sparse per il mondo. In Dostoevskij c’è l’idea che l’umanità sappia di se stessa molte più cose di quante ne abbia nel frattempo fissate nella letteratura.
Potremmo facilmente aggiungere che in Aleksievic c’è l’idea che la vita, la storia e i racconti che ne riferiscono, contengano molte più cose di quante nel frattempo siano state fissate nella storiografia, nella sociologia, nell’antropologia.
Noi dell’AISO a questa idea diamo il nome di storia orale.
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