di Francesco Bignardi Baracchi
Pubblichiamo il report della VII Scuola di storia orale nel paesaggio del Dragone e del Dolo che si è svolta a Vitriola di Montefiorino dal 13 al 14 luglio 2024. Questo report è a cura di Francesco Bignardi Baracchi e Andrea Caira.
PRIMA GIORNATA
Mattino: ritorno a Vitriola
Arriviamo a Vitriola di Montefiorino la mattina di sabato 13 luglio, in momenti differenti. Alcuni di noi partecipanti giungono presto, altri in ritardo. Non c’è molto movimento nel piccolo paesino appenninico, solo poche anime, e tanta luce che affetta le superfici ormai verticalmente. È quasi mezzogiorno, infatti. All’apertura ufficiale della Scuola nel paesaggio del Dragone e Dolo, ci siamo quasi tutti. Per iniziare, Antonella Zecchini – che ci ospita ancora una volta nella sede de L’Erbalonga, la sua associazione – ripropone il “tortino del geoesploratore”, ma con una provocazione di fondo. Lo spunto è una metafora culinaria. «Avendo conosciuto gli storici,» dice, «e avendo capito forse cosa sono le fonti orali – ma ancora non lo so – abbiamo pensato di mettere le fonti uguali per tutti», e cioè proporre stessi ingredienti, perché «si tratta di fare un tortino molto semplice», riempire gli stampini e infornarli. «Io sono certa, sicurissima, che vengono fuori dei tortini diversi, anche se le fonti sono le stesse.». L’istigamento è chiaro. «Perché c’è l’interpretazione personale, ognuno farà a suo modo» e cioè in base alle gerarchie di rilevanza di volta in volta adottate. E, come se non fosse già abbastanza esplicito, Antonella va ancor più in profondità: «siete anche molto pericolosi, volevo dire, alla fine, secondo me, perché dipende dopo [da] chi interpreta e poi dopo chi scrive testi.» Si ferma lì. Nessun accenno, per adesso, a chi assaporerà il risultato, chi digerirà il prodotto. Ma va bene così. È già molto quel che ha messo in tavola con la sua metafora culinaria. Tra le varie cose, quindi, ci troviamo davanti un uovo, una spadellata di cicoria, tarassaco e piantaggine, poi parmigiano reggiano, sale, semi di girasole, ma anche le erbe selezionate, «sono tutte delle piante commestibili» come echinacea, dragoncello, santoreggia, salvia, maggiorana, menta finocchietto.
Le operazioni si svolgono senza problemi, tra uno scambio di voci e l’altro. E quando i tortini sono infine pronti, si dà inizio al pranzo, al primo momento di convivialità libera tra noi partecipanti.

Primo pomeriggio: memorie tattili
Dopo pranzo, un «fuori programma». La casa di Antonella, sede dell’Erbalonga, ha uno spazio antico, importante, una sorta di cantina il cui accesso è segnato da un “architrave precolombiano” perché del 1491. Quello spazio è adesso ricolmo di oggetti. Alcuni sono già disposti appena fuori dell’ingresso, come un bell’esemplare di prêt a lètt. L’operazione svolta da Antonella è chiara: ha raccolto e disposto una serie di oggetti della sua famiglia, una collezione di reperti personale, preziose tracce adesso lì riconvocate e disposte. Essi azionano l’innesco del racconto. Prima di tutto, una spiegazione: Antonella ha accettato l’appello del «tempo della restituzione», più o meno richiamandosi a Ettore Guatelli anche se lei si vuole attenere alla dimensione del suo contesto domestico. Già si inizia a discutere sulla natura di questo spazio che vuole estendersi nel tempo – e non necessariamente solo all’indietro – parlando appunto di una sorta di museo etnografico, ma prima di tutto cominciamo l’esplorazione. A catturare lo sguardo, un paio di oggetti strani ma importanti, perché con essi «entra in campo la Storia», «arriva il Novecento» come precisa Antonio Canovi. Si tratta di due innesti semicircolari di legno con dentature in metallo, da fissare ai piedi per riuscire a salire i tralicci così da sistemare e aggiustare la rete elettriche che, proprio in quella fase trasformativa postbellica del Novecento, muterà in parte il volto del paesaggio montano. Poi, si entra nella cantina. Vi sono molti oggetti, alcuni di decisa importanza storica, come parte della divisa da POW che testimonia il passato del padre di Antonella, fatto prigioniero nel 1942 o ‘43 in Cirenaica e da lì trasportato in Nord America e infine a Honolulu, territorio richiamato da alcune immagini tipicamente hawaiane riportate in patria dopo la fine della guerra. Sono ricordi, questi, che si inframezzano a decine di altri ancora, ognuno risollevato non appena si passa a contemplare altre memorie tattili lì esposte: attrezzi agricoli, altri esemplari della vita bellica, come munizioni della seconda guerra mondiale, bacinelle e altri oggetti del quotidiano o della vita da montagna, come un bel paio di sci di legno e occhiali per andare in moto.
La cosa singolare, e che differenzia questo momento da un mero attraversamento di uno spazio museale, è che alcuni oggetti sono presi, sollevati, fatti passare per mano, disturbati e scrutati da diverse angolazioni. Meno museo, più paesaggio del ricordo, insomma. Si procede verso la parete opposta all’entrata, si solcano decenni e si arriva a oggetti femminili, quelli che la madre e le figlie hanno posseduto e usato in anni più tardi: attrezzi da cucina, un quaderno, scarpe da sposa, fotografie, una coperta elettrica. Antonella sfoggia un foglio, su cui compaiono delle scritte. Inizia a leggerci quel che vi è tracciato sopra:
Sposa bambina, vita meschina.
Sposa matura, calma e sicura.
Sposa all’antica, fanno fatica.
Sposa birichina, mandano tutti in rovina.
Sposa con l’anima, sarà meglio di una fortuna.
Sposa distrutta, casa distrutta.
Sposa arrendevole, pace durevole.
Sposa irritabile, casa piacevole, lite interminabile.
Sposa elegante, conto gigante.
Sposa normale, sei un capitale.
E ancora:
L’Amore è come il pane, bisogna che sia sempre fresco per essere buono.
Quando l’amore fa un cenno, seguitelo.
Quando vi parla, sebbene la sua voce possa frantumare i vostri sogni…
Che cos’è questa cosa?, viene domandato. «Era mia mamma,» risponde Antonella, «che quando si era ammalata aveva iniziato a scrivere», raccogliere modi di dire, detti e proverbi. «Lei scriveva continuamente».
Riemergiamo infine dalla cantina, quel piccolo museo di famiglia, museo etnografico, uno spazio di ricordo e racconto.

Pomeriggio: cronistoria delle Scuole nel paesaggio del Dragone e Dolo, e questioni tecniche
Ci raduniamo, soddisfatti, attorno al tavolo nel retro della casa del L’Erbalonga. Inizia il momento seminariale previsto quale prima attività di dibattito della settima edizione della Scuola. Ciò che siamo chiamati a fare, ognuno con le proprie competenze e strumentazioni, è una cronistoria documentata delle sei edizioni passate in questo paesaggio appenninico. La cerchia così costituita è invitata a mettere in gioco il ricordo come forma documentale, esercizio di ascolto attivo per “esplorare le geoesplorazioni”. Da lì, analizzare forme, pratiche e risultati, elaborare una sorta di bilancio delle esperienze di ricerca e sperimentazione della pratica storica orale che deve essere un invito alla discussione e al confronto, in particolare sul valore della componente visiva nell’utilizzo del video durante le pratiche di registrazione delle testimonianze.
Per iniziare, Antonio Canovi esegue un elenco, una ricostruzione delle sei edizioni passate. Scandisce parole-chiave, nomi dei protagonisti, luoghi, date. Le idee che vi si annidano dietro sono diverse e molteplici, testimonianza della ricchezza che ha sempre contraddistinto le esperienze delle Scuole.
Tra questi ascolti, risalenti in particolare all’edizione quinta del 2022, spiccano le voci della cantante Bruna Montorsi e dello scultore Dario Tazzioli, i quali riportano rispettivamente al valore storico del ri-canto dei maggi, melismi tradizionali su cui ricollocare nuove parole, nuove voci e temi, e all’esperienza della forma plastica di sculture modellate tra attaccamento alle risorse naturali e alla tradizione religiosa del proprio paese e l’allargamento dell’orizzonte al paesaggio d’oltreoceano, quell’America in cui trovare fortuna.
Col terzo ascolto – al centro la registrazione del geografo Tommaso Barbieri che porta lo sguardo dall’alto nella ricostruzione-interpretazione del paesaggio di Romanoro – nasce un’idea, una proposta: creare un atlante delle esperienze delle Scuole di Storia Orale nel paesaggio del Dolo e del Dragone. L’impegno che vi sta dietro ha come dichiarazione di fondo la divergenza tra l’interpretazione del territorio da parte delle amministrazioni che se ne occupano e degli abitanti che invece paiono darlo troppo per scontato, disinteressarsene in un qualche modo. Dunque, l’atlante dovrebbe poter ridisegnare quelle tappe e itinerari capaci di dare rilievo al punto di vista di chi vi abita. L’implicazione è quella di riaffermare reti, connessioni significative tra soggetti, oggetti, spazi ed eventi disposti nel tempo, quella memoria collettiva, insomma, che determina il rapporto col paesaggio, tra soggetti portatori di nuovi interrogativi e spazi interessati da trasformazioni territoriali. Da qui, l’importanza di chi, come i geostorici, attraverso le proprie strumentazioni e metodologie fa attivamente cittadinanza.

Ciò è ancor più chiaro nel momento in cui si apre un parallelo percorso di dibattito. Il punto di partenza ha una forma ben definita: le vecchie torri di Vitriola, le case-forti, e una in particolare, quella del Pignone che si andrà a visitare più tardi, di notte. Queste torri stanno crollando, letteralmente. Tracce destinate ad andarsene, irrimediabilmente. Il problema: non accettiamo la decadenza e la scomparsa. Se questo è un male, lo è perché la funzione delle torri non esiste certo più. E allora – come viene riportato all’attenzione dallo storico ambientale Daniele Valisena, attraverso il richiamo alla categoria della “ruination” – si tratterebbe di consegnare un valore ecologico dei monumenti, delle tracce storiche del paesaggio. Conservare in loro un divenire. Ma il quesito di fondo rimane: prendersi cura delle rovine per chi? Per la gente che abita il luogo o per i fruitori esterni, che vedono le tracce e attribuiscono loro un significato diverso? Perché è chiaro, come precisa Antonio: «dare il senso a quel che tu abiti: è questo che fa lo storico» prima di tutto.
Ciò si lega a quanto emerge dal quarto e ultimo ascolto. La voce di Antonella Zecchini, raccolta sempre nel 2022 presso il campo agroecologico de L’Erbalonga nel Cervecchio, si concentra sulle trasformazioni ambientali e antropogeniche del territorio, in particolare il rapporto con gli animali, la loro scomparsa progressiva: «Quando vado a lavorare al Cervecchio,» precisa Antonella, «sento passare gli animali, passare dal bosco, sento benissimo… da marzo questa cosa non succede più perché hanno fatto una battuta così forte che non ci sono più cinghiali e non ci sono più neanche lupi». Se la Storia Orale e la geoesplorazione sono capaci di aprire traiettorie di comprensione delle modalità di co-abitazione del territorio, in primo luogo si tratta di avanzare passi verso un’appropriazione sempre più approfondita del significato delle trasformazioni che lo interessano per un proficuo gesto di riappaesamento.
In tutto questo, lungo le traiettorie di confronto che si stanno aprendo e intrecciando nel momento seminariale, emerge chiaramente l’implicazione delle metodologie e in particolare delle tecnologie usate all’interno della pratica storica orale.
In merito a ciò, il successivo punto di discussione è dedicato a una questione specifica, che Mario Spiganti – in dialogo con Giovanni Contini – introduce mediante la proiezione delle testimonianze di un gruppo di donne alle prese con la memoria collettiva raccolte a Riolo nel 2018. Legata ai fatti bellici di eccidio e distruzione del 1944, si evince come la costruzione della memoria passi attraverso la trasmissione e la rielaborazione di generazione in generazione del ricordo degli eventi, perché – come viene detto da una delle intervistate – «cosa vuoi che sapevamo, da piccoli… è dopo che abbiamo imparato tutto», sicché «ci facevano dire… [che] i tedeschi erano più buoni che i partigiani». Questa, dunque, la memoria lì passata ai posteri. La forte dichiarazione circa i partigiani non rimane ignorata: sorprende, solleva reazioni all’interno della cerchia di ascoltatori, sia là, all’epoca dell’intervista, sia adesso, tra noi riscopritori di quell’occasione. L’importanza di tali reazioni sarà presto riportata all’attenzione. Per adesso, ci si concentra sulle implicazioni tecniche, prima di tutto il significato del video che assume nella costruzione e gestione di interviste.
Sorvolando, per il momento, sul lavoro di restituzione – è consentito tagliare e montare, ai fini dell’integralità del senso della testimonianza? – emergono questioni tecniche ricondotte alle apparecchiature adottate. L’esperienza di Mario parla chiaro: uso di più telecamere e di un microfono esterno per preservare la traccia audio, comunque autonoma.
Un secondo spezzone aiuta ad approfondire meglio ciò di cui si sta parlando. Si tratta di una video-intervista del 4 agosto 2018 a Giulio Gaetti, testimone degli eventi bellici e politici relativi alla Repubblica partigiana di Montefiorino. L’attenzione di Spiganti, corresponsabile delle riprese, è rivolta all’uso delle macchine da presa che prescinde da quelle che sono le regole del documentarista, perché separate da certi canoni estetici, in particolare la rinuncia allo zoom così da evitare effetti emotivi: «no, cerco di stare su una relativa oggettività, entrare dentro una situazione rispettandola, questa è l’ottica dello storico orale, a mio modesto parere … perché altrimenti… altrimenti si eccede nella sovradeterminazione del linguaggio audiovisivo che copre i contenuti.»

Lentamente, l’attenzione è spostata sul valore della componente visiva nella registrazione dell’intervista, nella creazione e restituzione delle fonti orali. La questione viene sviluppata da noi partecipanti, e da Giovanni Contini prima di tutti, prendendo in esame caratteristiche diverse e problematiche trasversali. Appare un dibattito piuttosto articolato, ma suona pressappoco così: da un lato, l’importanza di registrare visivamente l’intervistato si allarga alla ripresa diretta della situazione stessa, immortalare volto, espressioni, cenni del corpo, che in alcuni casi possono andare contro il contenuto affermato, stemperarlo, mutarlo del significato, «la gestualità può contraddire ciò che viene detto» spiega Contini; dall’altro lato, la stessa dinamica tra intervistato e intervistatore deve essere testimoniata e la componente visiva aiuta in questo: catturare dinamiche, reciproche influenze, reazioni, proprio come è accaduto poco prima, con la forte affermazione da parte dell’anziana intervistata circa «i tedeschi più buoni dei partigiani». E poi, separare suono e contesto diretto appare problematico: «diventa artificiale lo staccare un elemento dall’espressività umana, il sonoro…» commenta Contini, «si sa che le parole sono la cosa più importante per noi storici orali… ma siccome esiste questo “di più” nel commercio interumano… allora perché toglierlo?». Vi è infatti – è la precisazione di Spiganti – una fisicità che sorregge l’oralità della voce. «Il video non recupera totalmente questa implicazione, per carità, ma la fisicità è fondamentale. Nel momento in cui fai lo storico orale, la fisicità ti rimanda al contesto, alle persone, alla propria storia, al proprio paesaggio, a cose che altrimenti sfuggono.»
Detta così, l’uso del video parrebbe essere certamente utile e risolutivo. Ma comporta problematiche più o meno grandi, che iniziamo a vagliare con attenzione: l’impatto sull’oggettività cercata nell’interazione tra intervistatore e intervistato – laddove può rendere evidente la circolarità che sottende alle due o più personalità messe in gioco, che si influenzano; la presenza impattante di una persona in più (il cameraman) nel momento dell’intervista; l’artificialità che assume l’occasione, col rischio del «ferma tutto, questa la rifacciamo», com’è avvenuto e testimoniato da Andrea Caira; il rischio di cristallizzare la complessità dell’intervistato in un’immagine riduttiva, limitata alla gestualità, all’aspetto e all’esteriorità impressa nella sola traccia video; o ancora l’obiettivo della macchina da presa, non dissimile da un proiettile puntato sull’intervistatore, quale risulta ancor più evidente nella semantica del lessico inglese. Infine, la questione generale di «come si introduce il condizionale all’interno dell’audiovisivo» (Contini) perché il rischio è di non riuscire a sovrastare la perentorietà di quanto affermato, ricalcata dall’immagine.
È in definitiva un dibattito ricco, quello che arriviamo a intessere intorno al problema dell’implicazione del visual all’interno delle interviste di storia orale; un dibattito pieno di spunti, e non certo concluso e risolutivo, ma che ci aiuta a carpire ancor di più la realtà e il futuro della pratica storica orale alle prese con l’avanzare, le opportunità e le responsabilità chiamate in gioco dalle tecnologie, davanti a un gesto all’apparenza semplice, comunque imprescindibile, qual è quello dello storico orale, ascoltare. Chiudere gli occhi e ascoltare.
Sera: voce e chitarra e memoria
Mara Redeghieri è al centro del palcoscenico. Non è un vero palcoscenico perché non è in un vero teatro. Ma è al centro, illuminata da fari. La voce è amplificata da un microfono. Un leggio davanti a sé, la copre in parte. Dovrà essere rimosso provvisoriamente nei momenti in cui non le è chiesto di cantare, in cui deve cioè improvvisare a parole senza melodia. Vale a dire: raccontarsi, ricordare e parlare della sua storia e di quella del suo paesaggio sonoro.
Perché quella che adesso sta svolgendosi è un’intervista in forma di concerto.
Ci troviamo nell’ex oratorio di San Giuseppe di Vitriola. È uno spazio non certo enorme ma capiente a sufficienza per ospitare il pubblico della Scuola di storia orale e la popolazione vitriolese, ancora una volta co-partecipatrice delle iniziative artistiche promosse dalla Scuola. E adesso siamo lì per ascoltare Mara Redeghieri.
Mara è una cantautrice. Donna dell’Appennino, nello specifico di Poiano del comune di Villa Minozzo, dall’altra parte della valle. Ha un’importante carriera dietro di sé: già frontwoman del gruppo reggiano Üstmamò (nel dialetto locale significa “proprio ora”), ha in seguito lavorato come solista e in collaborazione con musicisti e personalità della sua terra, impegnata in progetti per riscoprire e ricantare la tradizione appenninica. Attualmente, dirige un coro femminile, per «divertirsi» seriamente con le tracce sonore dei canti popolari.
Il giovane musicista che le siede accanto, chitarra elettrica tra le braccia, è Lorenzo Valdesalici. La loro collaborazione pluridecennale, iniziata grazie all’amicizia di Mara col genitore di lui, lo psichiatra Benedetto Valdesalici, ha portato a un progetto importante, intitolato Futura Umanità, incentrato proprio sui canti del territorio, canti della popolazione. È Lorenzo ad aprire la cornice della serata. Ed è subito chiaro lo spessore del suo approccio sperimentale alla musica: crea una breve base armonica che poi mette in loop con un ripetitore e infine impugna un archetto di violino, lo fa scorrere sulle corde della chitarra, evoca un suono acuto, dai toni orientaleggianti, diverso da ciò che ci si potrebbe attendere.
Appena la musica finisce, si apre un primo momento di intervista. Antonio introduce il tema, il contesto, l’occasione: si tratta di «tornare a metterci l’orecchio» per ascoltare il paesaggio attraverso due persone del territorio, in continuità con l’esplorazione della lingua madre e del canto come prima lingua. I melismi come traiettorie d’accesso, all’identità e ai significati del paesaggio, dunque.
Prima di tutto, Mara ricorda il valore di impegnarsi ed esibirsi in un contesto come questo, «un posto magico», perché radicato nel territorio appenninico di cui ha sempre fatto parte. Una costante tra «stagioni dell’esistenza belle» e ricche di esperienze. Inizia col ricordarne una: il progetto con la fotografa Alessandra Calò, presso il Comune di Casina. Al centro, l’interrogazione del bosco e delle tradizioni a esso legate. In quell’occasione, Mara ha composto cinque testi richiamati alle rogazioni pagane. La dimensione spirituale, alla quale Mara sembra tenere particolarmente, si unisce a un sentimento ecologico, il paesaggio naturale al centro, così nasce una preghiera personale, «laica; prego il pianeta e prego gli esseri umani, prego la musica e il canto, l’ascolto di tutti, importantissimi, prego tutti quanti di fare attenzione, per un pensiero». Il Maggio viene così introdotto. Accompagnato da una melodia pizzicata alla chitarra, viene interpretato da Mara con voce piena, potente, tono sincero. È precisa, molto precisa, nessun vibrato.
È il turno della parola detta, il racconto pronunciato. Alla domanda, sollecitata da Grazia Fraccon, circa la risonanza del paesaggio sonoro nell’ascolto dei canti che fanno parte di Futura Umanità, il pensiero-ricordo di Mara va prima di tutto al rapporto complesso col suo territorio, quella parte della provincia reggiana che ha fatto fatica a riconoscerla davvero, darle il meritato plauso. È lo spunto per un pensiero dettagliato degli anni che scandiscono la sua esperienza musicale, i viaggi, gli spostamenti, gli incontri e i confronti con il mondo della musica italiana, e non solo. Ma il ritorno è qua, al paesaggio dei maggi, delle ottave rime, dei canti di pastorizia e transumanza, alcuni dei quali vengono subito proposti dal duo di musicisti.
Ricordare pure la storia dell’incontro con Lorenzo è lo spunto per raccogliere osservazioni riguardanti il mondo della musica, i suoi mutamenti e la sperimentazione elettronica, cara al giovane musicista. Una ricerca personale che ha al centro la trasposizione in strumenti elettronici della musica popolare, la contaminazione reciproca tra questi due estremi temporali. Tale ricerca avviene a Bologna, dove adesso Lorenzo vive, ma portandosi dietro tutto l’Appennino, tanto da musicista quanto da musicologo. E il ricordo ritorna al genitore, a quel Benedetto Valdesalici che interpretava il maggio come educazione sentimentale. Vale a dire, la reazione delle genti che abitano un paesaggio fatto anche di canto. Adesso, riproporre questo repertorio nelle case del popolo dovrà pur avere una reazione specifica. «Succede qualcosa, sì» risponde Lorenzo, «quando suoniamo in queste case, la musica unisce delle piccole comunità». Ciò, precisa Mara, ha importanti legami anche con quel che sta facendo col suo coro femminile: si tratta di rincontrare un paese, ricantare canzoni, ridestare storie e memorie. «Per me, il coro è diventata una seconda famiglia». Ma si tratta prima di tutto di una trama di incontri, guardare in faccia persone, in certo modo gesti che le trasformazioni culturali e tecnologiche hanno modificato anche in luoghi piccoli come quelli dell’Appennino.
Certo, le trasformazioni non devono necessariamente essere viste come un problema. È un messaggio che viene elaborato chiaramente da Lorenzo, davanti all’osservazione riguardanti le apparecchiature elettroniche che stanno prendendo il sopravvento su strumenti tradizionali, come la chitarra. Ma l’accento è e rimane sull’elemento centrale dell’intera questione del riscoprire melismi attraverso sperimentazioni musicali: «la tecnologia conta poco. Conta molto quello che si vuole dire».
E quel che i due musicisti vogliono dire viene ribadito con l’esecuzione degli ultimi brani musicali, stornelli e canti dedicati al territorio, al bosco, al Monte Cusna.
Notte: paesaggio di suoni (al buio)
In quanti modi si può interrogare un paesaggio? Si tende a dare per scontato che la risposta non dipende solo dal contesto spaziale, ma anche dal momento in cui si elabora l’esplorazione. A rimediare a questo, il buio che viene a tratti mitigato dalle torce elettriche di qualcuno del nostro gruppo. È notte, infatti, notte fonda, e i fasci a stento hanno modo di scavare un sentiero tra la vegetazione. Il gruppo si è unito per rilevare un soundscape del territorio vitriolese. Un paesaggio sonoro notturno. Cambio di prospettiva. E una direzione: la casa-forte del Pignone, una delle torri menzionate nel confronto pomeridiano. L’intento è quello di raccogliere la presenza del paesaggio. Occorre armarsi di apparecchiature elettroniche – come fa Lavinia Rosi – adatte a registrare manifestazioni sonore, in particolare quelle minime, il rasoterra che torna adesso alle soglie di uno sguardo cieco, composto di frammenti come il costante ritornello dell’incedere dell’acqua in uno scolo sotterraneo, il fruscio del vento tra i fili d’erba, lo stridore delle cicale celate nella vegetazione alta, o lo scricchiolio secco dei ciottoli di pietra sotto le suole delle scarpe di chi sta incedendo, perché anche noi siamo, in questo momento, parte del paesaggio, implicati nell’intreccio di suoni che compongono l’ambiente. E in tutto questo il buio quasi totale obbliga allora all’ascolto liberato dallo sguardo, scoprire cosa si palesa non appena la rilevanza tra i sensi viene sconvolta. Meno occhio, dunque, più orecchio. Ciò che si trasforma è la postura, il gesto di rilievo.
Scendiamo dapprima verso i primi campi agricoli e le file di coltivazioni di vigna, in direzione nord. Da lì, si dilunga un passaggio verso i campi più aperti della zona del Pignone. Appena si emerge dal gruppo di alberi, si ha l’occasione di scrutare ciò che sta manifestandosi in alto, lontanissimo. Il cielo è sgombro di nuvole e la distanza dalle luci del centro abitato permette l’abbondanza inusitata di punti luminosi, miriadi di astri e, addirittura, l’accenno candido della venatura chiara, appena accennata, flebile e lontana, del gesto latteo della nostra galassia. Vi è anche chi si aiuta con un’applicazione sul telefono per l’identificazione di qualche costellazione o un pianeta, si osserva un punto luminoso colorato, lo si riconosce tramite un nome, perché l’esigenza di scoperta non può non scomodare ciò che sta così in alto, sopra di sé.
Quando arriviamo alle soglie dell’antica torre, Antonella inizia una veloce spiegazione della presenza di questa casa-forte nel territorio pignonese, la vita che gli abitanti dovevano avere avuto ai tempi di attività, la vita quasi autonoma, la presenza di una fonte d’acqua naturale, il forno, un piccolo stallo per gli animali, «e vivevano davvero di pochissimo, una situazione molto povera, lontana dal paese». Adesso è davanti ai nostri occhi, abbandonata. Qualcuno accenna al rilievo di questa trascuratezza, ma è quello che è avvenuto con queste case-forti gettate al centro del disinteresse della popolazione locale. L’enorme figura in pietra della torre si apre davanti ai nostri occhi, rievocata dalla luminosità tenera della volta stellata. In apparente silenzio, riporta all’attenzione la conversazione avuta il pomeriggio, il significato di spazi ridotti in rovina.
Ci si concentra ancora una volta sui suoni, sui rumori, gli aspetti piccoli del paesaggio che traspaiono con le sue impronte sonore, prevalentemente di carattere vegetale, anche se non manca qualche traccia legata alla presenza umana, da lontano proveniente nella forma di un veicolo che passa veloce sull’asfalto o il tono basso della voce di un grande cane che manifesta la sua guardia con un abbaiare potente.
Lentamente, ritorniamo sui nostri passi, immettendoci una volta ancora all’interno del boschetto e riemergendo alle soglie della stradina che ci riporterà su, verso la strada principale di Vitriola.
SECONDA GIORNATA
Mattina: Rocca e Castello
Si sale a Montefiorino. Partiamo divisi in due gruppi, chi si sposta con un mezzo e chi a piedi. Quest’ultimo gruppo procede in salita lungo passaggi asfaltati o sentieri sul limitare boschivo. È l’occasione per condurre una geoesplorazione del luogo, osservando alcuni dei punti d’interesse storico e culturale, accorgendosi delle trasformazioni avvenute nello scorrere dei sette anni di Scuola.
La destinazione è la Rocca di Montefiorino, all’interno della quale, in un primo momento, abbiamo l’occasione di esplorare meglio la storia del luogo, in particolare l’esperienza bellica durante la seconda guerra mondiale e il caso storico della Repubblica: varcata la soglia dell’antico edificio, accompagnati da una guida esperta, percorriamo dunque le sale del Museo della Repubblica di Montefiorino e della Resistenza italiana. Gli allestimenti, ricchi di materiale e documentazione, si caratterizzano per la capacità di implicare tra le strategie d’esposizione un forte uso di tecnologie all’avanguardia; purtroppo, queste ultime solo in parte funzionano a seguito di un evento temporalesco che ha danneggiato alcune delle apparecchiature elettriche – fatto, questo, che ha forse suggestionato ancor di più la percezione di un paesaggio montano non limitato alle sole risorse nemorali e alle antropomorfizzazioni attuatesi nei secoli, ma complicato pure dagli aspetti meteorologici e atmosferici che segnano il territorio montano.

Lungo il percorso, si osservano reperti e immagini disposti a ritrarre i volti e i nomi di chi la Repubblica l’ha costruita, difesa, persa; il ruolo centrale di Teofilo Fontana, il sindaco del governo autonomo; la presenza delle donne della Resistenza, come Irma Marchiani. Durante il passaggio tra le sale, abbiamo anche modo di cogliere le caratteristiche più antiche dell’edificio, la pietra e l’architettura della rocca medievale.
Proprio all’interno di essa, accanto all’entrata, allungandosi sulla sinistra, la Sala Gorrieri è pronta per l’intervista che la Scuola di storia orale si accinge a seguire: Antonio Canovi provoca il racconto di Giovanni Contini in merito alla sua ultima esperienza editoriale, un libro ambientato nell’Appennino pistoiese, intitolato Castello di Cireglio, una storia orale – Lavorare sulla memoria.

L’accento viene prima di tutto posto sulla seconda parte del titolo: una storia, dunque, una tra le possibili, tra le varie. È chiaro come questa presentazione-intervista costituisca allora l’occasione per riflettere ancora una volta sui metodi, le procedure, le occasioni della pratica storica orale. Parallelamente, si entra nel merito dei contenuti, della storia del luogo raccontata attraverso lo sguardo e il rammemorare degli abitanti, specie quelli più anziani. Castello di Cireglio è un piccolo paesino sulle pendici basse del monte Sasso, in provincia di Pistoia. È un ambiente in cui elemento naturale – come i boschi di castagni – e vita umana si sono intrecciate in maniera profonda. Tra le persone che più hanno saputo lanciare uno sguardo consapevole, si annovera la figura di Policarpo Petrocchi, sul finire dell’Ottocento responsabile di un’autobiografia, intitolata Il Mio Paese, che è al contempo una riflessione attenta sulla realtà locale. In un qualche modo, ha tracciato le traiettorie più massicce di una memoria collettiva. Nella sua ricostruzione, Giovanni Contini pone l’attenzione sulla geografia del luogo: «la vicinanza alla città è notevole» precisa, «poche decine di chilometri, questo ha fatto sì che non ci sia stato spopolamento, ma anche un ripopolamento». Nella sua geoesplorazione e ricerca, Contini ha sempre avuto l’appoggio di persone mediatrici, in particolare un ex professore di storia e filosofia, Maurizio Ferrari, adesso produttore agricolo, interessato alla memoria del Paese.
Lentamente, a suon di rilievi di voci, si aprono alle orecchie e allo sguardo dello storico orale vicende e aspetti intriganti, come il rapporto con i villeggianti che si recano a Castello per risanarsi, portando cose nuove, «i dischi degli anni ‘60, i Beatles», o la dimensione esistenziale di un mondo rurale che, a partire dalla ricostruzione del Petrocchi – i carbonai, la presenza delle ferriere, i seccatori di castagne – coscientemente tramandata sul luogo, prende poi volto e storia attraverso le successive esperienze e vicende del Novecento, come l’esperienza bellica: «anche Castello di Cireglio si trova sulla linea gotica» e «si narra di una leggenda: gli Alleati erano stati informati del fatto che i tedeschi si trovassero solo a Cireglio, non a Castello, quindi fu bombardato solo là». Dalle interviste, emergono elementi importanti del tracciato e del vissuto del luogo: «durante la guerra,» spiega per esempio Contini, «i bambini venivano mandati a pascolare» e vengono ancora raccontate le esperienze forti dell’incontro di questi bambini con i segni della distruzione, non solo armi e munizioni esplose, ma anche corpi, vittime di mine o anche bombardamenti.
Ma non si tratta di sole esperienze drammatiche o difficili. Alcune delle interviste sono anche molto divertenti, in particolare quella alla signora Nicla, «l’ultima intervistata», una donna anziana «che mi ha parlato per mezz’oretta di sessualità femminile, cosa che non mi era mai successa», «aveva tutta una teoria sul parroco che sopperiva e riduceva l’isterismo delle donne…»
«In queste interviste non sei mai solo,» nota Antonio, «c’è sempre un mediatore… hai lavorato con il video. Non è un’intervista uno a uno».
«Abbiamo sempre fatto questa doppia ripresa» è la risposta di Contini, «io riprendevo il video. Poi, Giuseppina» – la moglie, tra i collaboratori di Giovanni – «riprendeva me e l’intervistato, per quello che si diceva ieri, registrare il mio intervento, somaticamente, con le espressioni, quindi sì, siamo stati di più».
L’attenzione ritorna dunque sul valore metodologico e anche deontologico dell’esperienza di Contini trasformata in libro. In esso, Antonio nota come ci sia «un passaggio in cui si rivela il segreto della storia orale» a «pagina tredici». Nell’introduzione che fa Giovanni, si ragiona sulla memoria. Essa fonda l’evento, l’evento originario è dunque cambiato, il paradigma viene dunque spostato con la messa in campo di «un altro evento».
Tra i compiti dello storico orale, anche quello della restituzione. Il testo di Contini è dunque l’occasione per riflettere sull’intreccio tra narrazione e modo di parlare originario. Ma anche sul problema della trascrizione, non sempre facile. A volte, lo storico orale deve limitarsi a ri-narrare, riassumere o rendicontare uno scambio di voci per vari motivi, intrinseci o estrinseci alla dinamica dell’intervista.
Altre volte ancora, lo storico orale può permettersi invece di sperimentare con il linguaggio, raggiungendo momenti di qualità letteraria, la bellezza delle forme espressive, come accade con un bel passaggio da Contini elaborato in merito alla storia della produzione delle castagne a Castello di Cireglio. «Con questa bellezza letteraria,» nota Antonio, «si può anche fare un lavoro didattico», che per esempio contempli la sperimentazione artistica. Il riferimento è anche al Parco Letterario di Castello di Cireglio di cui Contini riporta il valore storico e artistico. Nell’occasione specifica di questo parco nel Cireglio, si è ridato suono alla voce del Petrocchi con la lettura di passi della sua autobiografia.
Le domande da parte di altri partecipanti della Scuola sono l’occasione per approfondire ulteriori contenuti e traiettorie tracciate da Contini con la sua esperienza di storia orale. Per esempio, viene approfondito il valore dell’ottava rima, quale elemento culturale tramandato di generazione in generazione, con tutta la complicazione dovuta al fatto che sia «resuscitato in contesti diversi da quelli originali»; oppure, ancora, un punto importante che riporta a questioni metodologiche, il rapporto tra l’intervistato e gli intervistatori, effettivi o potenziali: «per quanto riguarda me,» spiega Contini, dopo aver ricordato le problematiche tipiche di chi deve introdursi in cerchie di narrazione a volte molto chiuse, «devo dire che mi sono sentito molto accettato, grazie a Maurizio Ferrari», il mediatore.
Le interviste sono state tradotte, quando sono in dialetto?, viene chiesto. «Non abbiamo mai tradotto, è una cosa che non si fa» risponde Contini, limitandosi alla sua esperienza specifica, come sempre, ma in grado nondimeno di insegnare la dottrina, definire esempi e modelli di valore per chi è interessato a praticare la storia orale.
Pomeriggio: finale aperto
Presso il giardino de L’Erbalonga, è stato allestito un pranzo per l’ultimo momento conviviale della Scuola di storia orale. Noi partecipanti ci ritroviamo dunque ancora una volta riuniti in un’occasione di assaggio di piatti tipici della tradizione locale, le erbe del territorio a ispessire i sapori, e al contempo di conversazione. La lingua del gusto e del racconto, del ricordo espresso con la libertà di un gesto amico rivolto a compagni di viaggio, un viaggio che sta giungendo al termine. E allora è il tempo adatto per parlare liberamente, rammentare momenti di vita, confrontarsi, discutere anche sulla corretta formulazione di un detto tradizionale – «con il tempo e con la paglia, maturano le sorbe e la canaglia», ma non si è convinti su quelle sorbe, c’è chi dice che siano in realtà nespole. Non si arriva a una soluzione. Non importa. Insieme, ci si spinge alla confidenza, a condividere un’esperienza personale o un pensiero in merito a eventi del passato.
Tra i partecipanti al banchetto, si è accomodato pure Gabriele “Lele” Chiodi, cantastorie abilissimo e già spalla destra di Francesco Guccini, una personalità cordiale e sincera; ha anche già partecipato a edizioni passate di questa Scuola, si trova tra amici, insomma, e questo porta a innescare in qualche modo l’ingranaggio del racconto. Ma la sua parola detta è impraticabile senza la parola cantata e così presto si ritrova con una chitarra tra le braccia, le dita attente a risvegliare le corde. Giri armonici in minore, alcuni altri in maggiore, per accompagnare un repertorio improvvisato ma che segue il filo della memoria, la sua memoria.

Presto, subito dopo il pranzo, come un magnete, riunisce dunque noi ascoltatori in un percorso che porta indietro, lungo la sua ricca esperienza di vita. Voce da tenore, sicura e incisiva. Non è al centro di un palcoscenico, ma in un cerchio senza gerarchie. È ironico e profondo allo stesso tempo. Scherza ma al contempo rivela insegnamenti. Spazia da una serie di maggi – ne tocca diversi, quelli drammatici del reggiano, quelli in forma di serenata del modenese o del pistoiese – a ninne nanne. Ci cattura con un canto trasportante, interpreta Donna Lombarda, la fa sua accompagnandola con il racconto della madre che soleva intonarla quando lui era bambino, al mercato, a vendere tra le altre cose grembiulini per scolari. Parla della sua esperienza da giovane con il nonno. Questo porta a toccare la melodia e il senso di una canzone enorme qual è Il Vecchio e il Bambino di Guccini: il suo caro amico e compagno di musica è già lì, ma poi lo richiama a parole dette. Inizia a raccontare qualche aneddoto. Un pensiero anche al compianto Claudio Lolli, «lui faceva solo i centri sociali… era triste come le sue canzoni, quando girava a piedi, con la chitarra sulle spalle». Da qui, ritorna il sorriso di un aneddoto sardonico che gioca con i malanni della vita, esperienze di lettino d’ospedale, ma che vengono intrappolati nella spietata saggezza dell’ironia. Sa dunque scherzare, Lele Chiodi, e lo fa bene proprio nell’alternare parola e canto, confidenza e arte, rievocazioni di canti antichi, popolari, la profondità seria e malinconica di un maggio che recita un augurio: un augurio a tutte le famiglie / la fortuna nella vita vi sorregga.
È con tale momento di ascolto, di oralità, di fare memoria, raccogliendola in un dialogo in cerchio, che si conclude questa nostra settima edizione di Scuola di storia orale nel paesaggio delle Valli del Dragone e del Dolo. Sono stati due giorni in cui si è recuperato molto, riscoperto e rimodellato, assumendo la posa del geoesploratore e dello storico dotato di sguardi a più livelli e confrontandosi con le diverse trame e gli spunti di una pratica che meglio incontra il suo senso nell’attuazione diretta e sul campo, in un paesaggio dai molti aspetti, ognuno da sondare, esplorare e interpretare con le dovute strumentazioni e domande. E quest’ultimo confronto con Lele Chiodi non ha il sapore di una vera e propria conclusione alla Scuola. Come se fosse stata in realtà fermata, non certo portata a un termine definitivo. Implicitamente, è forse questo che si è lasciato accadere. Perché lo si è appreso bene. Un paesaggio è in realtà inesauribile finché ci saranno voci da raccogliere.